la Repubblica, 6 gennaio 2015
La difesa di Bossetti. Dopo duecento giorni di carcere il muratore di Mapello si racconta: «Speravano che prima o poi sarei crollato. Ma non confesso un delitto che non ho commesso. Il killer di Yara non sono io»
«Dal 16 giugno, il giorno del mio arresto, le hanno provate tutte per farmi confessare. Speravano che prima o poi sarei crollato. Ma non confesso un delitto che non ho commesso. Il killer di Yara non sono io, lo dimostrerò in aula, davanti ai giudici. Però vorrei un processo giusto. Anche nei tempi». Sei mesi e mezzo di silenzio mediatico (ha risposto solo alle domande dei magistrati). Centotrentaquattro giorni in una cella di isolamento. In totale, a oggi, 204 giorni di custodia cautelare dietro le sbarre. Con un’accusa che pesa come un macigno: avere seviziato e ucciso, la sera del 26 novembre 2010, Yara Gambirasio, 13 anni, la stessa età del primo dei suoi tre figli. Adesso parla, Massimo Bossetti. Attraverso il suo avvocato, Claudio Salvagni – il legale a cui si è affidato in vista del processo che lo vedrà imputato di omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà – il carpentiere di Mapello offre la sua versione a Repubblica. «Sono stato dipinto come un mostro – dice – accusato di un reato orribile. Ma io con la morte di quella povera ragazzina non c’entro niente. In carcere le rivolgo ogni giorno un pensiero. Spero che al processo venga fuori la verità».
Perché ha deciso di parlare?
«Perché hanno fatto indagini in un’unica direzione, è come se l’opinione pubblica, i media, mi avessero già condannato. Ancora prima del processo. Invece sono pronto a dimostrare la mia innocenza: e lo farò in aula. Non sono io il killer di Yara».
C’è il suo Dna sugli indumenti della vittima, ci sono le immagini delle telecamere di Brembate che riprendono il suo furgone vicino alla palestra da dove è sparita Yara.
«Sul mio dna deve essere stato fatto un errore. Io, come ho sempre detto, non ho mai conosciuto né visto Yara. Dopo la Cassazione (udienza il 25 febbraio, si discuterà la richiesta di scarcerazione presentata dalla difesa; le richieste precedenti erano già state respinte dal gip di Bergamo e dal Tribunale del Riesame di Brescia, ndr ) con il mio avvocato chiederemo eventualmente la ripetizione dell’esame del dna».
Per dimostrare cosa?
«Ammesso sia davvero mia, quella traccia potrebbe essere finita lì, come ho detto ai magistrati, a causa dell’epistassi di cui soffro da sempre. Anche sul lavoro. Il mio sangue potrebbe essere finito su degli attrezzi usati dall’assassino. In cantiere ho perso spesso sangue dal naso, lo sanno anche i miei colleghi. Non ho accusato nessuno, ma ho offerto spunti, piste alternative. Finora non mi hanno ascoltato».
E il suo furgone ripreso a girare attorno al centro sportivo fino a pochi minuti prima della scomparsa di Yara?
«Quelle immagini non provano niente. Ho raccontato e confermato che passavo sempre spesso, da Brembate di Sopra tornando dal lavoro. Anche per delle commissioni.
Che il mio furgone sia stato ripreso per strada dalle telecamere non fa di me un assassino. Non ho mai fatto mistero delle mie abitudini, delle mie giornate. Ho raccontato tutto della mia vita, anche i particolari più intimi e privati. Ho ribadito di essere disposto a rispondere a qualsiasi domanda in nome della ricerca della verità. Dopodiché la mia memoria non è indelebile».
Si è contraddetto sugli spostamenti di quel giorno.
«Sfido chiunque a ricordarsi esattamente che cosa ha fatto quattro anni prima, soprattutto quando ha una vita fatta di giornate fotocopia, una identica all’altra. Il fatto è che hanno rivoltato la mia vita e non hanno trovato niente. Come non hanno trovato nessuna traccia riconducibile a Yara sul mio furgone e sulla mia auto. E nemmeno su tutto quello che hanno sequestrato con le perquisizioni in casa. Non avevo e non ho segreti, altrimenti credo sarebbero emersi».
Sul suo pc sono state trovate ricerche su “sesso” e “tredicenni”, con particolari anatomici precisi: per l’accusa sta lì il movente dell’omicidio.
«L’ho già detto in interrogatorio, è capitato che abbia guardato dei siti porno con mia moglie. Ma io non ho mai fatto ricerche o visto video con minori (la difesa di Bossetti ha spiegato che quei clic potrebbero avere tutt’altra spiegazione scientifica, ndr)».
La chiusura delle indagini è imminente, poi si andrà a processo.
«Sono pronto a difendermi. Ma chiedo un processo giusto. Anche nei tempi. La giustizia in Italia è lentissima: perché nel mio caso corre così velocemente? (va detto che i termini – 180 giorni dal fermo – entro i quali il pm avrebbe potuto chiedere il giudizio immediato, che fa saltare l’udienza preliminare, sono scaduti, ndr).
Lei è accusato di avere ucciso una ragazzina, di averla massacrata abbandonandola in un campo.
«Yara aveva la stessa età di uno dei miei tre figli (gli altri due hanno 8 e 10 anni, ndr ). Non potrei mai fare una cosa così atroce. È come se la facessi a uno dei miei bambini. Immagino il dolore devastante dei familiari di Yara, mi sono sempre messo nei loro panni, fin dal primo giorno. A Yara rivolgo un pensiero ogni giorno. A lei e anche alla mia famiglia, che continua a credere nella mia innocenza e mi sta vicino».
Che cosa dice a chi si stupisce del fatto che in questi sei mesi e mezzo in cella non ha mai avuto un crollo, nemmeno un piccolo cedimento?
«È il mio carattere, sono fatto così. Cerco di farmi forza ogni giorno. Se sei in carcere da innocente puoi avere dentro anche tutta la disperazione del mondo ma, allo stesso tempo, trovi anche la forza per non mollare. Ho ricevuto pressioni fortissime, hanno cercato di convincermi in ogni modo a confessare: hanno provato a allettarmi con il conto degli anni, la riduzione della pena, 20 anni anziché 30... Speravano che crollassi. Ma non ho confessato perché non ho niente da confessare».
Sua moglie, i suoi figli, i suoi genitori continuano a venire a trovarla.
«Quando vedo i miei figli e i miei genitori mi commuovo. Sapendo che sono incontri a termine, concentro tutto in quell’ora: poi rimane il vuoto. Se fossi colpevole, al mio avvocato lo avrei detto. Anche per chiedergli un aiuto su come affrontare, appunto, i miei familiari».
Il reato di cui è accusato è inaccettabile nel codice non scritto dei carcerati. Riceve ancora minacce?
«Sì, le ultime mi sono arrivate con una lettera spedita da un detenuto di un altro carcere. Mi ha scritto “quando esci ti stacco la testa e la porto ai Gambirasio”. Però adesso in cella va meglio, da quando mi hanno tolto dall’isolamento ho socializzato con gli altri detenuti. Mi sento un po’ più sollevato. Aspetto il processo. Ho paura di una condanna, certo. Ma credo ancora nella giustizia».
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«Porteremo in aula nuovo materiale, cercheremo di scrivere una storia molto diversa da quella che è stata scritta finora dalla Procura». Claudio Salvagni, affermato penalista del Foro di Como, romano d’origine, figlio di un ufficiale della Guardia di finanza ed ex nazionale di canottaggio con le Fiamme gialle, è uno abituato alle sfide. La difesa di Massimo Bossetti è una di queste. Ma lui, anche un passato da maratoneta, tira dritto. «Bossetti è innocente, lo credo al di là del mio ruolo di difensore». Dopo il forfait di Silvia Gazzetti, la collega che lo affiancava (lei ha parlato di «posizioni inconciliabili», lui dice «rispetto la scelta, non faccio polemiche coi colleghi»), Salvagni è al lavoro pancia a terra con un pool di consulenti per preparare la difesa da portare in aula. «Ci sono molti elementi di rilievo che la Procura non ha preso in considerazione. Li tireremo fuori, con le controperizie». ( p. b.)