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 2015  gennaio 06 Martedì calendario

«Fermi tutti! Ho la licenza di rapinare il 3 per cento della cassaforte». Quando la franchigia di punibilità diventa soglia di abuso

Se non è scandaloso indicare un limite sotto il quale non c’è rilevanza penale, la clausola del governo pare però una licenza a delinquere.
Se uno entrasse in banca e dicesse «Fermi tutti! Ho la licenza di rapinare il 3 per cento della cassaforte», i cassieri chiamerebbero la neuro prima ancora che i carabinieri: invece viene presentato come indice di un Fisco più «amico» l’aver previsto per legge la licenza di «rapinare» il 3 per cento dalla «cassaforte» di tutti, cioè di evadere le tasse fino al 3 per cento del reddito dichiarato senza conseguenze penali, sostituite dal raddoppio delle sanzioni amministrative. 
Tra un Fisco «amico» e non vessatorio verso i contribuenti onesti in crisi – condivisibile obiettivo del decreto legislativo del governo Renzi – e un Fisco invece «tonto» e indulgente verso i furbi, il confine sottile passa anche dall’architettura delle soglie di rilevanza penale dei vari tipi di reati tributari. 
In sé le soglie non sono uno scandalo, esistono in molti Paesi e da anni anche nel nostro ordinamento, e peraltro già il decreto di Natale (ora congelato a «dopo le elezioni per il Quirinale») in più casi le alzerebbe sensibilmente. 
Ma proprio per questo si fatica a comprendere che senso abbia, anche al netto delle ricadute sulla posizione di Berlusconi, una ulteriore ma generale «clausola di non punibilità» che, per tutti i reati tributari, e in aggiunta ai singoli «tetti» fissi interni, esoneri da conseguenze penali chi evade sino al 3 per cento dell’imponibile dichiarato. 
Certo non lo si fa per evitare che finiscano in tribunale quanti in crisi non riescono a versare l’Iva o le ritenute dovute, visto che troverebbero già riparo penale nella soglia di non punibilità alzata da 50 mila a ben 150 mila euro: scelta tutta politica, discrezionale ma facoltà dell’esecutivo, che potrà poi essere variamente giudicata dai cittadini alle prossime elezioni, come pure l’esenzione penale della «dichiarazione infedele» fino a 150 mila euro, o dell’«omessa dichiarazione» se sino a 50 mila euro di imposta evasa. Se poi lo scopo è quello di puntare al pragmatico pagamento delle tasse piuttosto che a un match penale ritenuto velleitario, già altre norme del decreto amplierebbero le chance del contribuente indagato di ottenere l’estinzione dei reati di «dichiarazione infedele», di «omessa dichiarazione» e di «omesso versamento di Iva e ritenute», o la riduzione sino a metà della pena in altri tipi di reati fiscali, a condizione di aver pagato il proprio debito tributario prima dell’inizio del processo. 
Allo stesso modo un’altra parte del decreto già si propone (con efficacia messa peraltro in dubbio da molti tributaristi) di dare più «certezza del diritto» e chiarire dove finisca l’«elusione» delle norme fiscali e dove invece cominci la loro «evasione»: in modo da scoraggiare l’«abuso del diritto» sfruttato da quei contribuenti sempre in furbetto slalom tra le norme, ma anche scongiurare lo speculare «diritto dell’abuso» brandito dalle talvolta forzate interpretazioni di un erario famelico per missione. 
Diventa però una presa in giro se le sagome dell’ingenuo contribuente che commetta un errore formale nella dichiarazione dei redditi, o del piccolo imprenditore alla sbarra perché credeva a torto di poter praticare una certa politica di ottimizzazione fiscale, vengono usate come «scudo umano» di chi invece con le proprie condotte esprime tutta l’intenzione di sottrarsi ai doveri fiscali. 
Subordinare a una soglia di evasione del 3 per cento anche la rilevanza penale del comportamento di chi per non pagare le tasse usa fatture false, gonfia oneri fittizi o non dichiara redditi, è già un razzolare male rispetto al predicare bene che non si dovrebbe convivere con l’evasione, che chi non paga le tasse ruba servizi e futuro a quelli che le pagano, che non è con una ammenda (per quanto salata) che dovrebbe cavarsela chi dichiara o fabbrica falsità. 
Ma ancor più assurdo diventa far dipendere la rilevanza penale da una soglia di non punibilità neanche fissa, cioè da un «tetto» almeno uguale per tutti, ma addirittura da una percentuale, appunto il 3 per cento dei redditi dichiarati, surreale «modica quantità» di quella droga-evasione che tutti a parole lamentano intossichi l’economia: una percentuale che moltiplica il disvalore sociale, perché rende relativo il concetto stesso di rispetto della legge, e amplifica l’iniquità della diseguaglianza, perché paradossalmente consente di evadere di più a chi ha di più. 
Costruita così all’articolo 19 bis, somiglia non solo a un condono per il passato ma anche a una licenza a delinquere per il futuro, una polizza d’assicurazione sulla dose socialmente accettabile di evasione fiscale: una sorta di preventivo, utile a garantire ai grandi contribuenti (imprese, banche, superprofessionisti) di poter pianificare a tavolino e calcolare al centesimo quanta fetta di evasione fiscale sarà loro consentito assaporare ogni anno.