il Giornale, 5 gennaio 2015
«Non siamo più l’Italia della Mulino Bianco». Lo dice Gavino Sanna, il pubblicitario che ha inventato gli spot della famiglia perfetta, ma anche quelli per Barilla, Tuborg, Rana e Ariston...
Pluripremiato, pluridecorato. Un uomo, uno slogan. Una garanzia di eccellenza. Una prova provata della creatività italiana apprezzata e ricercata nel mondo. Signore e signori: Gavino Sanna.
Mi scusi se glielo chiedo, Sanna, ma ho l’impressione che l’Italia del Mulino Bianco...
«Ho già capito, e allora concludo io la sua domanda. No, non siamo più nell’Italia del Mulino Bianco. Anche se, sincerità per sincerità, mi piacerebbe che ci ritornassimo, perché allora c’era almeno l’idea di un sogno. E c’era anche la volontà di ricostruire. Oggi invece tutto è stato costruito e tutto è stato sfasciato. In Italia e nella mia Sardegna».
Lei e la Sardegna: una cosa sola, anche quando viveva e lavorava all’altro capo del mondo.
«Sì, perché io sono sempre e comunque rimasto sardo, con l’anima dei quattro Mori che sventolano e una terra che mi porto del cuore anche se mi ha deluso, mi delude, mi fa soffrire. Per raccontarle a mio modo l’Italia e la Sardegna potrei risponderle esattamente come il generale De Gaulle rispose quando gli chiesero un giudizio, al ritorno da un suo viaggio in Brasile. Ebbene lui si espresse così: il Brasile è la terra del futuro, peccato che sarà sempre così. Ecco, l’Italia e la Sardegna saranno sempre così. Purtroppo».
Colpa di qualcosa o di qualcuno in particolare?
«Direi perché abbiamo una strana propensione a cibarci solo di spazzatura pseudo-intellettuale. E così facendo rischiamo di appaltare la nostra vita e il nostro lavoro ai social network e di costringere la nostra capacità dialettica e creativa dentro un computer, uno smartphone, un tablet. E i computer non conoscono emozioni, non sanno piangere».
Lei con il computer non ha proprio un rapporto magnifico...
«Vede, io sono stato presidente della più importante agenzia del mondo che è stata anche la prima a portare nella propria sede i computer. Ebbene io non ho mai avuto il coraggio di mettere il computer sulla mia scrivania per la paura di abbandonare le matite. Così accadeva che i ragazzi della mia agenzia mi portassero i loro lavori, elaborati al computer, e io, cinicamente, bocciavo tutto e dicevo loro: tornate domani, scrivetemi le vostre idee su un pezzo di carta. Dopodiché se l’idea vista su un pezzo di carta, mi convincerà potremo discuterne e realizzarla al computer».
Eppure il computer, come i social network...
«La interrompo subito. Il computer è una sorta di balia. E i giovani oggi hanno tante balie. Che permettono loro di chattare, twittare, cinguettare. Per sentirsi qualcuno. Per primeggiare nell’esibizione e spesso nella finzione. E, altrettanto spesso, per insultare sapendo di poter nascondersi dentro questi strumenti. Ho l’impressione che ci troviamo davanti a delle scimmie che non diventeranno mai uomini».
Con questi presupposti come farebbe lei a raccontare oggi in uno spot la famiglia italiana?
«In effetti sarebbe un compito piuttosto arduo perché credo proprio che la famiglia non esista più. Perché un po’ tutto si è sgretolato. Persino il tifo per la squadra del cuore non è più romantico ma è diventato volgare, aggressivo. Mi chiedo quale sia il futuro di coloro che, come desiderio, hanno quello di somigliare o di diventare come quel cuoco che in tv spacca i piatti e dice parolacce».
Difficile anche ritrarre una famiglia «diversa»? La imbarazzerebbe?
«Assolutamente no perché ignorare è sempre fastidioso, sintomo di arretratezza culturale. Ognuno di noi è libero di essere quello che è. E merita il pieno rispetto. Come pubblicitario io racconterei quella realtà, la storia di quella famiglia, anche se fosse una famiglia composta da due uomini o da due donne e da bambini adottati. E le assicuro che non sarebbe una pubblicità né soft né hard ma solo una storia di famiglia. Il mio modo di comunicare è stato sempre quello: essere prima di tutto educato per portare per mano il consumatore e spingerlo ad acquistare ciò che io gli voglio fare acquistare. Ma tutto deve avvenire senza ostentazioni, né forzature».
Se dovesse sintetizzare Renzi in uno slogan?
«Non lo conosco più di tanto. Mi ha abbracciato, durante la commemorazione di Pietro Barilla al Regio di Parma e si è congratulato per il mio lavoro ma nulla di più. Le posso dire, inquadrando il personaggio con l’obiettivo del pubblicitario, che Renzi dà l’impressione di voler vendere Renzi. È come se fosse diventato una marca, un brand. E lui, consapevolmente sta calcando la mano per sottolineare questo aspetto. Il camminare impettito, il parlare con la boccuccia, la camicia senza la cravatta. Diciamo che quella è la sua scatola. Però, attenzione, la scatola non basta, perché dietro ogni marchio ci deve essere un valore».
Lei prima ha curato la campagna di Soru, poi quella del suo avversario Cappellacci.
«Il mio più grande cruccio da pubblicitario. Sono stati i la mia più grande delusione anche se hanno vinto entrambi con percentuali bulgare. Ma mi sono sentito tradito da tutti e due perché quando ho fatto quelle campagne immaginavo e sognavo che fossero campagne per la mia Sardegna, per la mia terra. Ero convinto che cambiassero la Sardegna. E ci ho creduto. Prima trascinando alla vittoria un candidato di sinistra e poi uno di destra. A perdere siamo stati io e la Sardegna. In entrambi i casi».
Sanna, da pubblicitario a finto pensionato che fa un sacco di cose tra cui il vignaiolo.
«Per dirla tutta io sono astemio, ma mi sono gettato con tutto l’entusiasmo possibile in questa nuova avventura non per vendere vino ma perché nascesse in Sardegna una sorta di Tiffany del vino. Volevo arrivare ad un prodotto che portasse in giro per il mondo una bellissima immagine della Sardegna, volevo che dentro quelle bottiglie scure, su quelle etichette piccole che ricordano i nostri vecchi tappeti, e in quella cantina che somiglia a un nuraghe moderno, ci fosse un vino straordinario. Credo di esserci riuscito. Buttarmi in questa nuova esperienza è stato come inventare la campagna pubblicitaria più bella che potessi regalare alla mia terra. Sa una cosa: io per la Sardegna, ma non solo per la Sardegna, mi sono sempre preoccupato di vendere fatti, storie, emozioni mentre gli altri hanno veduto solo cartoline».
Torniamo indietro nella carriera e nella sua vita, cosa le ha insegnato Andy Warhol?
«È una delle persone che ho conosciuto appena arrivato negli States, quando capitai allo Studio 54 che era il fulcro della bella vita New York. Lui se ne stava sempre seduto, ogni tanto scattava una fotografia, faceva un sorriso. Insomma, non parlava. Poi sono riuscito ad arrivare alla sua Factory, a vedere come lavorava e mi misi anche a frequentare un corso di cinematografia, dove lui era il docente, alla New York University. In tutto quel tempo l’ho guardato, l’ho studiato. Esattamente come ho fatto con tanti altri personaggi che la mia vita professionale mi ha permesso di conoscere nel mondo. Diciamo che anche con lui ho aggiunto un altro piccolo pezzo al puzzle della mia vita. Perché ho imparato a essere come una spugna, ad assorbire il più possibile dai miei interlocutori».
Che cosa direbbe a un giovane pubblicitario che le chiedesse consiglio?
«Gli direi che ha sbagliato tempo, perché io il pubblicitario oggi cercherei di non farlo. Perché sono costretti sempre e comunque a eseguire tutto ciò che dice loro il cliente e quindi la mia stagione è passata. Ma nel frattempo io ho scritto 24 libri, ho fatto mostre delle mie caricature, che sono sempre stata la mia passione, e questa adesso è la mia vita. Comunque al giovane pubblicitario direi anche di lottare, di battersi. A costo di apparire presuntuoso io di partite ne ho perse poche. Ma se dovesse accadere di perderne una sarei pronto a rimettermi in gioco ad allenarmi di più, a studiare di più. Per vincere, per arrivare primo. Questo dovrebbe essere lo stimolo per chiunque sceglie un lavoro in cui crede».
Lei è il pubblicitario più premiato di ogni tempo, è commendatore, grande ufficiale...
«Guardi, mi creda, io sono ancora il ragazzino di Porto Torres che faceva il ras del quartiere. Che stava in mezzo alla gente e che giocava e decideva chi doveva e poteva giocare con lui con il pallone di cuoio che mi aveva portato mio zio con la firma di Carlo Parola. Il ragazzino cresciuto a cui piace passare una serata con un vecchio sardo che mi racconta, magari, come si lavorava la terra e come si faceva il pane. Anche se ho un cuore antico me lo tengo stretto. Io parlo e voglio parlare ancora con un cuore sardo. Vorrei che la gente capisse che non è un cuore moderno, ma un cuore legato alle tradizioni. Alla vita. Questo è Gavino Sanna».