Corriere della Sera, 5 gennaio 2015
«È un corpo normativo senza senso: mi auguro che ci sia la possibilità di correggerlo». Ignazio Visco spiega come il decreto non salva solo Berlusconi ma «depenalizza di tutto, dall’elusione all’evasione ma anche le frodi nelle quali sono stati usati strumenti derivati dalle banche d’affari»
Professor Visco, da ex ministro del Tesoro, che idea si è fatto del decreto «incriminato»?
«Si tratta di un provvedimento attuativo di una legge delega che ha l’obiettivo, tra l’altro, di riordinare il penale tributario secondo una logica di attenuazione. Ma di certo l’aspettativa generale non era quella di arrivare a depenalizzare i reati tributari. Non credo che la gente pensi che chi commette tali reati contribuisca all’affollamento delle carceri...».
Quindi non c’è solo una norma considerata favorevole a Berlusconi. Secondo lei il nuovo decreto introduce una generale depenalizzazione dei reati tributari?
«Sì, una depenalizzazione di tutto, cominciando dall’elusione, in contrasto logico col fatto che in sede Ocse e G20 ci battiamo contro le multinazionali che operano in questo modo».
Ci faccia un altro esempio.
«Chi fa fatture false per mille euro non è punibile. Ma se una fattura è falsa è falsa, non c’è da mettere limiti. Uno può fare una cartiera che produce fatture false per cento, mille contribuenti e non viene punito? È inquietante».
C’è altro?
«Sì, tutte le frodi colpite negli ultimi anni nelle quali sono stati usati strumenti derivati dalle banche d’affari vengono depenalizzate».
Poi c’è la soglia di punibilità che passa da 50 mila a 150 mila euro.
«Esatto, questo vuol dire che l’evasore fino a 3-400 mila euro di materia imponibile non è punibile penalmente: forse è troppo. E poi non è più reato l’imputazione di costi non inerenti all’attività d’impresa, cioè ad esempio quando si portano in deduzione costi di consumi che sono del contribuente o dei suoi familiari. Non è più reato neanche l’omessa dichiarazione del sostituto d’impresa, questa deve essere stata una dimenticanza, ma ci sono altre norme che possono comportare una perdita di gettito importante».
Quali?
«Ad esempio quella che elimina una norma, che avevo introdotto io, che raddoppiava i termini ordinari di accertamento nel caso in cui, durante l’attività di verifica, gli uffici avessero riscontrato la rilevanza penale di determinati comportamenti. Con la modifica gli anni da otto passano a quattro. Impossibile agire».
Sì, ma sul comma che esclude la punibilità se l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% dell’imponibile che pensa?
«Che è in contrasto con l’intero impianto della riforma che si basa sulle soglie: non ha senso».
Sta dicendo che si tratta di un errore o il corpo normativo che emerge dalle varie modifiche ha una sua «ratio»?
«È un corpo normativo senza senso: mi auguro che ci sia la possibilità di correggerlo perché la credibilità di un Paese non si basa solo sulla rigidità della normativa del lavoro ma anche su come combattiamo la mafia, la corruzione, l’evasione fiscale, il falso in bilancio. Tutto questo pesa molto sull’opinione pubblica».
Resta confusione circa la paternità di queste norme.
«È singolare che non si sappia bene come sono nate. Mi spiace che la responsabilità è del ministro del Tesoro che ha portato in Consiglio dei ministri un certo testo e poi ne è arrivato un altro. O non si è accorto che il suo testo è stato manipolato, e questo è più grave, o lo ha accettato come è uscito».
A che scopo?
«In questo Paese l’idea che non pagare le tasse sia un reato non viene digerita. Vogliamo assecondare questo andazzo? Le sanzioni amministrative ci sono ma non quelle penali. Non è per essere forcaioli, ma si tratta di una scelta strategica per il nostro Paese. Applaudiamo quando negli Usa si arresta per evasione, e poi? Si può essere meno drastici ma qualcosa bisogna pur fare».