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 2015  gennaio 05 Lunedì calendario

Si può ancora uscire dall’euro? Meglio il disastro o la morte per soffocamento? I due scenari possibili secondo l’economista Salvatore Biasco

Sul prossimo numero di gennaio del Mulino l’economista Salvatore Biasco porrà il quesito che sarà al centro di ogni dibattito politico ed elettorale dei prossimi mesi: “Abbiamo l’opzione di uscire dall’euro?”. Inoltre, man mano che appariranno evidenti i sacrifici che comporta questa crisi, sorgerà in molti il dubbio se valga la pena che questi siano affrontati per soddisfare i dettati dell’intransigenza della Ue o se non esistano altre opzioni. Andare avanti così comporta un declino progressivo, che può durare un decennio (se basta). Se si parte dal 2007 il solco creato ci ha già portato la perdita di un quarto della nostra produzione industriale e, a seconda delle stime, dai 3 ai 4 milioni di posti di lavoro.Come il governo afferma, lo scenario migliore è quello che vede un’Unione Europea uscire dall’ossessione dell’economia dell’offerta senza porsi la questione della domanda. Ma al momento questa non pare una «opzione a nostra disposizione». L’economista valuta le leve su cui si può agire, consapevole che ciò implicherebbe un ritorno alla lira con riappropriazione del cambio. Uno scenario obbligato ad un percorso concordato che dovrebbe rimanere assolutamente segreto, cosa assai poco probabile vista la lunghezza e la complessità delle trattative. La consapevolezza di ciò diffonderebbe un panico da “si salvi chi può” che porterebbe a un disinvestimento dall’Italia e a un aumento a livelli elevatissimi dello spread con un subbuglio monetario unito a una deflazione mondiale. La raffinata analisi economica di Biasco descrive una situazione in cui, “anche nel caso di cooperazione, il mercato dei cambi dovrebbe esser chiuso e i viaggi proibiti durante tutta la fase di transizione e di riavvio del nuovo sistema, le uscite di capitale controllate amministrativamente e con misure di polizia. Se non altro, le lire dovrebbero essere stampate, i registratori di cassa reinstallati (tutto ciò che non si poteva fare durante la fase delle trattative segrete), debiti e crediti rinominati. I tassi di interesse (interni, ma forse anche del resto dell’euro) dovrebbero essere tenuti alti”.Con conseguenti interrogativi su chi dovrebbe tenere ordine nei mercati. La Bce? La Banca centrale Italiana? Qualunque soluzione possibile porterebbe i mercati a proteggersi dall’Italia.Né sarebbe diverso se la crisi fosse deliberatamente provocata con una dichiarazione di insolvenza. La domanda “Chi ce lo fa fare?” che si pone l’uomo della strada e che si è accreditata nella lotta politica non tiene in considerazione che questo non può essere un provvedimento che un giorno, prendendo di sorpresa tutti, l’Italia annunci ai suoi creditori. Questa è un’opzione che si materializza strada facendo se non altro per il rifiuto a perseguire misure di contenimento del debito. In un caso e nell’altro, un giorno (del default) ci sveglieremmo con le banche chiuse, conti correnti congelati, movimenti di capitale e viaggi all’estero proibiti, contante (alla riapertura delle banche) distillato. Partirebbe un’inflazione molto prima che i costi maggiorati delle importazioni incidano effettivamente sulle produzioni, per via delle aspettative che anticipano il risultato. La benzina può benissimo arrivare a 3.000 lire (supponendo un cambio iniziale di conversione 1:1.000). Ancora una volta con fondati presupposti l’economista descrive una reazione a catena per cui, “quand’anche il debito fosse decurtato del 30% (che reputa improbabile), i creditori esteri e gli investitori italiani dovrebbero assorbire perdite ingenti. Molti non ce la farebbero e fallirebbero. Gli stati dove sono locati dovrebbero farvi fronte, se ne sono in grado. Un contagio bancario sarebbe inevitabile…”.Le banche italiane che detengono titoli dello Stato verrebbero – nel linguaggio che ho sentito – “finalmente punite” e dovrebbero addossarsi i costi di una crisi che hanno provocato (le banche italiane?!). In realtà le banche fallirebbero pressoché tutte (e, con esse, le assicurazioni) e dovrebbero essere tutte acquistate dallo Stato, quanto i loro azionisti, tra loro piccoli risparmiatori, che detengono titoli di Stato, obbligazioni societarie, azioni, polizze vita, fondi comuni e che avrebbero perdite, per la caduta dei corsi e per haircut che il default comporterebbe. Ma i costi non si fermano qui. Pensiamo al credito che si bloccherebbe istantaneamente (senza più le iniezioni di liquidità della Bce, che subirebbe perdite rilevanti addossate agli altri Stati sovrani, il che non dispone bene nei nostri confronti). Pensiamo al crollo verticale della produzione, ai fallimenti a catena nel settore produttivo, a una disoccupazione colossale che si formerebbe (altro che aumento dei salari reali). Si bloccherebbero i consumi per via del reddito in calo verticale, dell’inflazione, delle incertezze sul futuro, della falcidia del risparmio. La situazione sociale diventerebbe disperata. Il saggio che citiamo analizza anche lo scenario inverso, ovvero di rimanere ancorati all’Europa e si interroga se è preferibile il disastro o la morte per soffocamento e propone una serie di valutazioni sugli obiettivi unitari che si dovrebbe porre la sinistra ricordando che “il crinale per il Paese è molto sottile”. Un saggio che dovrebbe aprire un dibattito.