la Repubblica, 5 gennaio 2015
Una tragica recita per allontanare il boia. John Cantlie, l’anchorman inglese ostaggio del califfato, mostra in un video le immagini di una Mosul rinata, tra i bazar affollati e l’ospedale che cura i bambini. Tutto sotto minaccia, per smentire le notizie sullo stato di terrore dell’Isis. Ma ora gioca una partita pericolosa
La cosa sta così, a questo punto: John Cantlie è uno sventurato ostaggio del Califfato e il reporter più trascinante del mondo. Ieri il suo nuovo filmato, Dentro Mosul, teneva le prime pagine. Lui vi è in forma, sbarbato, ringiovanito (ha 43 anni), e la sconcertante disinvoltura, velata tuttavia dalla rassegnazione del condannato a morte, con cui nella prima apparizione aveva letto il suo messaggio sembra aver lasciato il campo solo a una recita di consumata efficacia. Gli otto minuti vogliono ridicolizzare le notizie secondo cui Mosul – «la seconda città dell’Iraq», si premura di ricordare – è ridotta in povertà, vessata dagli scherani dell’Is, esposta alle violenze. È girato con maestria, in un tono brillante e alla fine spiritoso e beffardo. Il montaggio caleidoscopico mischia e ricompone le immagini delle location strategiche per l’assunto sulla normalità, anzi il progresso, della vita civile di Mosul. Si comincia, è ormai una sigla, dalla panoramica dall’alto sulla città.
John Cantlie nel video dell’Is
SI PASSA alle strade percorse in auto – Cantlie è alla guida – nel traffico urbano, agli acquisti nel bazar affollato, all’ospedale in cui sono curati i bambini feriti dai bombardamenti. La conclusione del film ha un crescendo irridente da strappare l’applauso, se si potesse applaudire la confezione ingegnosa di un’infamia: Cantlie, ritto sotto il cielo, sfida i raid aerei con una mimica da parodia. E poi, ora alla guida di una grossa fiammante motocicletta della polizia islamista, con un vero luttuoso “poliziotto” accampato sul sedile posteriore, ammaestra la telecamera che lo affianca, e di colpo sgasa e aziona la sirena, dissolvenza, fine.
Un film d’autore, così ben recitato che Cantlie ne è almeno il coautore, e deve avere un buon fiuto chi l’ha lasciato fare. Naturalmente, già mentre guarda e apprezza la fattura, lo spettatore non incantato lavora di smontaggio. Mosul è stata messa a ferro e fuoco e saccheggiata. Minoranze sono state trucidate, catturate, bandite – a cominciare dai cristiani. I militari decimati, o forzati ad arruolarsi. Solo nei giorni scorsi alle migliaia di yazidi ancora braccati sul monte Sinjar si è aperta la via della discesa, ed è stata liberata anche la zona di Zummar, ricca di petrolio. Allo scorso giugno, gli yazidi della provincia di Ninive ufficialmente censiti come uccisi o rapiti erano 3.583, di cui 1.597 donne.
La popolazione sunnita, e molti suoi notabili, avevano fatto buon viso all’avanzata jihadista perché ai loro occhi il gioco del governo di Bagdad era peggiore e ne aveva fatto una periferia umiliata e saccheggiata. Ma la rassegnazione di Mosul ai nuovi padroni è provvisoria e, dopo che l’avanzata dell’Is aveva fatto sentire il fiato sul collo al Kurdistan di Erbil, si sono succedute le ritirate e solo la debolezza mentale, più che militare, della coalizione ha ritardato una controffensiva su Mosul. E i sunniti sono sempre più allarmati da un’avanzata sciita e iraniana nel loro territorio. I capi della tribù dei Juburi, nelle province di Mosul e Kirkuk, dopo un abboccamento con gli americani, hanno aperto le ostilità contro l’Is. È avvenuto qui l’episodio di cui Repubblica riferiva ieri, coi giovani della città di Hawija, piazzaforte del Califfato, che hanno bruciato la bandiera nera; l’Is per rappresaglia ne ha sequestrati 170, di cui si ignora la sorte. A questo punto i curdi non intendono per proprio conto andare oltre, perché hanno già il controllo del territorio che considerano proprio, da Khanaqin a Jalawla, a Saadiya, e la montagna di Hamrin, e le città di Kirkuk, Makhmur, Guwer e Zumar, fino a Sinjar.
Nel video di ieri, il brano sull’ospedale è il più zoppicante, con quella spettrale inquadratura del corridoio deserto di umani, prima della sala dei bambini. Da qualche giorno si è diffusa una voce secondo cui sarebbe arrivata a Mosul l’Ebola, portata forse da miliziani nigeriani. Una voce – c’è da sperarlo – ma tanto più allarmante a Mosul, dove i medici sono stati decimati. Dunque il “brillante” reportage di Cantlie non è venuto per caso: esso reagisce al momento di maggior debolezza (che non vuol dire minor ferocia, anzi!) dello Stato Islamico a Mosul. Documentariamente, non dimostra niente: in una città-accampamento di un paio di milioni di perso- ne, il traffico di auto e di passanti, o i banchi del bazar, non sono una notizia. Però c’è il sottocapitolo che riguarda la persona di John Cantlie.
Dopo la prima apparizione, nella tuta arancione dei colleghi inginocchiati per le ultime parole, Cantlie aveva annunciato un suo programma a puntate in cui, inviato specialissimo, avrebbe smascherato la congiura dell’informazione sullo Stato Islamico. Video ben girati, cambi di inquadrature, ritmo. Gli spettatori si saranno sorpresi ieri di scoprire che il programma era già all’ottava puntata. La maggior parte dei media internazionali aveva rinunciato a trasmetterle, perché non c’era più la novità, perché era evidente come i fili di Cantlie fossero mossi da un burattinaio con il coltellaccio nell’altra mano, e per non fare il gioco del nemico. Cantlie era diventato un caso increscioso, oltre che tragico, e ascoltare i suoi bollettini di controinformazione jihadista non emozionava più, faceva solo tristezza. Lui continuava. Raccontava i raid falliti della Delta Force per liberare gli ostaggi. Protestava contro il rifiuto di negoziarne il rilascio. Denunciava l’intervento della coalizione e ne annunciava la disfatta. Riferiva che i prigionieri come lui erano stati sottoposti al waterboarding, in contrappasso a Guantanamo. Aveva il suo “studio”: il tavolo, la tuta, la ripresa di fronte e di profilo… Il registro era cambiato bruscamente alla fine di novembre, quando Cantlie apparve in un reportage “dal campo” di Kobane, a cielo aperto, la barbetta curata, indosso una camicia nera e pantaloni civili. Il video era introdotto da una spettacolare inquadratura a volo d’uccello, “un drone dell’Is”, che stringeva sulle rovine della città curda e sul giornalista. Ancora più disinvolto, indicava il confine turco, spiegava che Kobane era in mano all’Is e che non c’era ombra di curdi e di giornalisti e dunque la resistenza di Kobane era una balla dettata dalla Casa Bianca. Il miglior reporter che la propaganda jihadista potesse desiderare, e però proprio in quei giorni la stretta dell’Is su Kobane retrocedeva e i servizi dall’altro fronte mostravano le postazioni riconquistate e i curdi… Ora è la volta di Mosul.
Avevamo guardato Cantlie finora come si guarda una mosca in un bicchiere rivoltato. Si fa il tifo, per una mosca nel bicchiere. E una mosca cocchiera? Nel video di ieri non c’è più il bicchiere, la mosca si muove freneticamente: ma ha le ali tagliate. Ammesso che avesse disperatamente obbedito ai suoi carcerieri- carnefici, ora Cantlie ha tolto dalla mano del burattinaio i propri fili e se li muove lui, come conviene al burattinaio, con più maestria. Sta giocando una partita in cui è spaventosamente solo, pressoché postumo. Suo padre è morto di una complicazione – crepacuore, si chiama – mentre lui faceva la sua carriera forzata di anchorman. Noi, dal sicuro, dobbiamo ricordarci che tutto quello che dice e fa è una recita sovrastata dal coltello. E anche se la simulazione fosse arrivata a convincere lui stesso della parte che sta giocando, non si potrebbe che avere una simpatia per il suo tentativo smisurato. Ogni puntata del suo telegiornale dilaziona la decapitazione. A questo sono ridotte le Shahrazad dei nuovi califfi.