la Repubblica, 5 gennaio 2015
Il governo ferma la norma Salva-Berlusconi, quella che avrebbe cancellato il processo Mediaset. E ora il Tesoro riscrive il decreto
Palazzo Chigi contro il Tesoro. Tesoro contro palazzo Chigi. Renzi accusa via XX settembre. E viceversa. Si mormorano i nomi dei possibili “colpevoli”, il sottosegretario Casero, il sottosegretario Lotti, la Manzione. Tutti negano. Il giallo s’infittisce. Il solo fatto certo è che la norma salva Silvio, che avrebbe cancellato il processo Mediaset e restituito Berlusconi alla piena vita politica, è tuttora lì, inesorabilmente scritta, di “padre” ignoto, ormai destinata a sparire, lasciandosi dietro uno strascico di sospetti. Renzi è deciso a sgombrare il campo da una mina che giura di non aver piazzato. È pronto ad accusare il ministero di Padoan: «Sono stati loro, quell’articolo lo hanno scritto loro, io non c’entro. Il principio è giusto e sacrosanto, tuttora lo sottoscrivo, ma mi sono battuto perché fosse più rigido. Il Tesoro si è opposto. Orlando pure». E adesso che la macchia di una legge ad personam si allarga sul governo? Adesso Renzi non ha dubbi: «Io congelo tutto. Non posso accettare che nelle trattative per eleggere il nuovo presidente della Repubblica ci sia di mezzo un argomento simile». Sì, ma le cinque righe incriminate che fine faranno? Qui il premier fa mostra di buona fede: «Durante il consiglio dei ministri, quando ne abbiamo discusso, nessuno ha fatto il nome di Berlusconi. Neppure Orlando, che pure è della sinistra del mio partito. Anche in questo momento continuo a pensare che Berlusconi non potrebbe avere nessun beneficio, ma se invece il rischio c’è, io sono pronto a cambiare il decreto, abbasso la percentuale di non punibilità e la piazzo al di sotto di quella che lo avvantaggerebbe». Fine dei giochi? Il pasticcio resta. I sospetti pure. Un patto del Nazareno che si allarga fino a cancellare una sentenza come quella del capo dell’opposizione. Non solo. Una norma, per come la raccontano i magistrati, quelli di Milano in particolare, da giorni in allarme, che avrebbe effetti devastanti sui processi in corso per reati gravi come la frode fiscale, le false fatture, le dichiarazioni infedeli. Si gioca qui la caccia al colpevole tra Mef e palazzo Chigi. Mettiamo in fila i fatti. A partire dallo sgomento di Franco Gallo, l’ex presidente della Consulta e presidente della commissione che, al Tesoro, ha scritto il testo. La sua sorpresa è grande quando scopre dal sito di palazzo Chigi che il decreto approvato non è affatto quello che lui ha mandato due mesi fa al ministro Carlo Padoan. Per certo la norma incriminata non c’era. A chi lo ha sentito in questi giorni Gallo ha detto: «La mia è una commissione di gente per bene. Io, in quel testo, non mi riconosco». Tant’è che ha deciso di riunire oggi il suo gruppo e di esprimere apertamente il suo dissenso. È la stessa preoccupazione che si materializza a Milano dove, a palazzo di giustizia, i protagonisti dei processi fiscali e tributari si interrogano allarmati sulle possibili conseguenze che già immaginano catastrofiche.
Facciamo un passo avanti. Da Gallo al Tesoro. Quando il suo decreto arriva, con il via libera di magistrati famosi nella lotta ai reati fiscali come il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, l’Agenzia delle entrate con il di- rettore Rossella Orlandi fa delle osservazioni. Altrettanto fa la Guardia di finanza. A quel punto il testo è pronto. La salva Silvio non c’è. Viene spedito per mail agli altri ministeri. Tra questi anche alla Giustizia, dove i tecnici del Guardasigilli Andrea Orlando annotano le possibili anomalie. Siamo a circa venti giorni fa. Nel decreto legislativo che arriva in via Arenula non c’è traccia della salva Silvio. Ovviamente ne è rimasta traccia nei pc dell’ufficio legislativo. Giustizia annota le possibili anomalie. Tra queste soprattutto la soglia troppo bassa che rischia di bloccare le confische sotto i 150mila euro. Quello di cui Orlando si lamenterà a palazzo Chigi.
Prima del 24 dicembre, il giorno del consiglio dei ministri, il testo non viene esaminato in un pre-consiglio. Dal Tesoro, ancora ieri, arrivano affermazioni perentorie: «Il nostro testo era quello originario. La norma che potenzialmente può aiutare Berlusconi non c’era. Non siamo stati noi. L’hanno messa a palazzo Chigi. Chi? È fin troppo facile immaginarlo...». Il pettegolezzo circola. Antonella Manzione, il capo dell’ufficio legislativo. Luca Lotti, il sottosegretario. Negano entrambi. Di rimando, da palazzo Chigi, spunta un nome dell’Economia, quello del sottosegretario Luigi Casero, oggi Ncd, ma descritto tuttora come un fedelissimo di Berlusconi.
Ultimo atto, il consiglio dei ministri. Dove il testo è stato discusso. Dove il titolare dell’Economia Padoan non ha sollevato eccezioni. Dove neppure il suo staff tecnico ha rilevato anomalie. Dove Renzi ha insistito che, tra l’alternativa se mettere un tetto oppure fissare una percentuale, era meglio la seconda strada perché nei grandi gruppi industriali è possibile un errore di bilancio, una svista, fatta non per frodare il fisco. Renzi e Orlando hanno discusso. Orlando per le sue confische. Renzi per mettere pene più alte. Quindi la norma salva Silvio non è passata inosservata, se n’è parlato. Ma, a sentire i presenti, nessuno ha pronunciato il nome di Berlusconi, o è serpeggiato il dubbio di poterlo avvantaggiare. Resta l’allarme di Gallo, dei magistrati, della stessa Orlandi, quando il testo è diventato pubblico. Siamo a oggi, alla ricerca del “colpevole”.