Libero, 2 gennaio 2015
Dopo la delusione del petrolio i texani scommettono sulle olive e piantano 2 milioni di alberi
Con le quotazioni del greggio americano appena sopra i 53 dollari al barile la cuccagna dei produttori storici di oro nero made in Usa è finita. I più colpiti sono i petrolieri del Texas che in oltre un secolo di estrazioni hanno guadagnato montagne di bigliettoni. Ma la festa, almeno per ora, è finita. E con i corsi della materia prima in caduta libera (negli ultimi dodici mesi il calo è stato del 46 per cento) c’è poco da sperare anche per il futuro. A questi prezzi di nuovi pozzi non se ne scavano più. Colpa dei sauditi che pur di mettere fuori mercato lo shale oil, il petrolio estratto dalle sabbie bituminose, ne estraggono in quantità crescente. Saperlo, però, non risolve il problema, così molti texani che si sono arricchiti con l’oro nero ora puntano su quello verde. L’olio d’oliva. Secondo l’agenzia Bloomberg News sarebbe scoppiata una vera e propria «febbre dell’olio». I grandi ulivicoltori sono passati dai 24 del 2008 ai 70 attuali. E il trend è in ulteriore consolidamento. Secondo il Texas Olive Oil Council nel 2013 sono stati piantati circa 500mila ulivi, sei volte le 80mila piantine messe a dimora nel 2008. Ma il boom deve ancora arrivare: nell’anno che è appena cominciato dovrebbero essere piantati ben due milioni di nuovi ulivi. Dunque l’escalation è appena all’inizio. A spingere in questa direzione l’andamento delle quotazioni all’origine dell’olio d’oliva. In Spagna, maggiore piazza di negoziazione al mondo, le quotazioni sono schizzate durante l’ultimo raccolto del 38% per l’extravergine e del 35 per l’olio d’oliva raffinato. Quel che perde l’oro nero guadagna quello verde. Il Texas non è noto come Stato produttore di olive, a differenza invece della California. Fino a venti anni fa non c’era nessun ulivo. L’idea di piantare i primi venne ad alcuni coltivatori verso la fine degli anni ’90, anche in virtù del clima che nell’area centrale e meridionale dello Stato si adatta ottimamente alla coltivazione dell’ulivo. Fra l’altro la domanda di olio è in forte aumento e gli Stati Uniti sono diventati tra i maggiori consumatori mondiali: il 97% però, secondo le stime dell’American Olive Oil Producers Association. viene importato dall’estero, in primo luogo dalla Spagna e dall’Italia. Anche se di vero olio made in Italy Oltreoceano ne arriva pochino. In massima parte è prodotto spagnolo o nordafricano camuffato col tricolore. Secondo il dipartimento statunitense dell’Agricoltura, lo scorso anno gli Usa hanno importato olio d’oliva per circa 1,1 miliardi di dollari, in forte crescita rispetto ai 400 milioni del 2000. In testa ai produttori locali rimane la California che copre la quasi totalità della produzione domestica con 3,5 milioni di galloni circa di olio. Il Texas ne produce meno di 15mila l’anno, ma con la nuova campagna di impianti può scalare parecchie posizioni. Naturalmente i risultati della campagna di piantumazione in atto si vedranno soltanto nel prossimo decennio, visto che l’ulivo raggiunge la piena produttività fra il nono e il decimo anno di vita. Quindi i petrolieri «pentiti» dovranno avere parecchia pazienza prima di incassare delle cifre significative con l’oro verde.