Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 02 Venerdì calendario

La storia di Atiq, il ragazzino afgano che percorse la tratta in cui si è incendiato il Norman Atlantic nascosto sotto l’asse di un camion: «Sopra il penultimo asse delle ruote posteriori c’è spazio per appendersi. La cosa importante è non sbagliare asse: l’ultimo vuol dire morire schiacciati al primo sobbalzo»

«Ho percorso anch’io la tratta in cui si è incendiata quella nave, nascosto in un camion». Atiq oggi ha 18 anni e vive in Germania, sta provando a regolarizzarsi: ha lasciato l’Afghanistan a 14 anni e ne aveva 16 e mezzo all’epoca della traversata. Ha seguito la rotta di tanti profughi, quella che dai porti di Patrasso e Igoumenitsa conduce a Bari, Ancona, Brindisi e Venezia. I numeri del Viminale dicono che gli immigrati irregolari intercettati dalle forze dell’ordine italiane su quella direttrice sono stati 1.809 (172 minori) nel 2012 e 1.317 (178 minori) nel 2013. Poi ci sono quelli che sfuggono ai controlli: «Ragazzi senza genitori, profughi siriani anche con bambini, adulti africani e asiatici che vogliono chiedere asilo nel nord Europa», racconta Atiq. 
Arrivati dalla Turchia in Grecia, hanno due vie per raggiungere la meta: quella di terra tra le frontiere balcaniche e quella di mare nascosti nei traghetti, come Atiq nell’aprile 2013: «Non so il nome della nave – dice – ma mi ricordo quello della compagnia, Anek». La stessa del Norman Atlantic. Prima c’è Patrasso. Lì, le persone in attesa di tentare la sorte verso l’Italia sono rigidamente divise in base alla nazionalità. «All’inizio dormivo in spiaggia dentro tubi di cemento abbandonati, poi in un vecchio deposito ferroviario mangiando cibo preso nella spazzatura». A Igoumenitsa, invece, i migranti (le stime dicono 5mila) si accampano nei boschi che circondano la città, detta «The Jungle». La Giungla, lo stesso nome che indica altre due terre di transito, il porto francese di Calais e Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco. Per entrare al porto bisogna superare la recinzione. «Lanci una coperta sul filo spinato sopra la rete poi per arrampicarti ti fai aiutare – spiega Atiq —. Non porti niente con te, devi cercare di essere leggero e piccolo». 
I modi per salire sulla nave variano in base alla disponibilità economica. Si può viaggiare nascosti in un camion: l’arrivo a destinazione è quasi sicuro, perché il viaggio è organizzato dai trafficanti. O si può tentare di prendere la nave da passeggero, senza documenti e sperando di non essere scoperto. Ma c’è chi insegue un camion, ci si arrampica e si nasconde dentro il vano del carico, o come Atiq sale sotto un tir: «Sopra il penultimo asse delle ruote posteriori c’è spazio per appendersi. Basta essere magro, ma l’obesità – sorride – non è diffusa tra chi parte. La cosa importante è non sbagliare asse: l’ultimo vuol dire morire schiacciati alla prima buca o al primo sobbalzo». Qualcuno si nasconde anche nei pullman turistici che tornano dalla Grecia, tra i bagagli o tra le ruote. 
«Autisti e guardie in Grecia controllano continuamente gli automezzi fermi: devi infilarti all’ultimo momento, o appena si muovono, battendo gli altri nelle tue stesse condizioni». Delle 18 ore di navigazione, il ragazzo afghano ricorda la puzza, la nausea e il sudore: «Per la paura, la temperatura era fredda». Guarda le foto del Norman Atlantic in fiamme e dice: «Sì, bisogna cercare in basso, dove stanno le macchine...».