la Repubblica, 31 dicembre 2014
Patrick Modiano, confessioni di un Premio Nobel. L’autore francese si racconta. La sua infanzia. Le prime prove. L’ottimismo sul futuro della letteratura. «Ho bisogno della lentezza, per questo scrivo a mano. Fra un libro e l’altro prendo una pausa: occorre aspettare un po’ perché risorga qualcosa che si è dimenticato»
Nello studio di Patrick Modiano, che vive accanto ai Giardini del Lussemburgo in un vecchio appartamento dai soffitti molto alti, le pareti sono ricoperte di libri che arrivano giù fino al tappeto rosso. Ci dice che recentemente ha dovuto sbarazzarsi di tremila opere. Ha conservato, dai tempi della sua adolescenza, qualche libro in edizione tascabile (all’epoca erano i primi), di cui ama riscoprire i passaggi che sottolineava.
Si ricorda delle copertine coloratissime, pacchiane e un po’ aggressive dei classici, Stendhal, Balzac. Può ancora descrivere quella dell’edizione francese dell’ Amante di Lady Chatterley. A quell’epoca era in Inghilterra, dove il romanzo di Lawrence era proibito. Ha conservato qualche libro anche della sua infanzia. A otto anni amava Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson attraverso la Svezia. Si è ricordato di Selma Lagerlöf e di altri autori svedesi, come Hjalmar Söderberg, quando è andato a Stoccolma a ritirare il premio Nobel per la letteratura.
Qual è stato il momento più difficile a Stoccolma? Il discorso?
«Quando sei sopra un palco sei solo, non è così difficile. Quando devi fare un discorso sei obbligato, ti devi buttare, è come quando salti giù con un paracadute, non bisogna esitare. Non c’è stato un momento difficile, in realtà».
A tavola con il re, seduto accanto alla sorella, non pensava ai ringraziamenti che doveva fare alla fine del pasto?
«No, in realtà non ci ho pensato molto. È ovvio che ci sono dei momenti in cui un po’ di fifa può venire. Ma no. Una volta che si sta lì… È curioso, non è la mia natura, io sono piuttosto timido».
Nel suo discorso lei si è mostrato ottimista sul futuro della letteratura, come se avesse sempre una grande fiducia nella gioventù.
«Sì, io appartengo a una generazione un po’ intermedia. La nostra infanzia non era così diversa da quella della generazione degli anni ‘30. Quando avevo 8 anni non c’era la televisione, c’era una trasmissione radio per i bambini il giovedì: era ancora un’infanzia come quelle di prima della guerra. Tutto quello che ci affascinava, le cabine telefoniche, l’odore dei garage, l’odore delle macchine dentro i garage, quelle cose che mi colpivano… a volte mi vie- ne da pensare che adesso, per i bambini, gli oggetti siano meno magnetici, meno propizi alle fantasticherie. I bambini o i giovanissimi hanno l’abitudine di fare zapping. Ma di sicuro alcuni saranno affascinati, si fisseranno su oggetti di adesso. Anche da un punto di vista romanzesco, forse internet provocherà un mondo particolare. L’attività letteraria, fino ad oggi, era piuttosto solitaria, c’era bisogno di un’attenzione costante. Il fatto che questa attenzione ora sia più difficile può apparire pericoloso. Ma contemporaneamente si produrranno anche altri fenomeni. È per questo che sono ottimista».
Nel discorso di Stoccolma lei ha affrontato le difficoltà della scrittura. Perché in particolare le prime pagine?
«La cosa più facile per me, più gradevole, è una sorta di fantasticheria iniziale. Quando c’è da concretizzare, il problema è sempre lo stesso: c’è un momento in cui bisogna saltare ed è un po’ sgradevole. Dopo, non si è sicuri di aver preso la strada giusta. Per almeno un mese si continua a scrivere, c’è un momento di scoraggiamento: ma poi ci si rende conto che basta una piccola modifica, una cancellatura, e si riparte».
Fra un libro e l’altro rimane a lungo senza scrivere oppure ogni mattina si siede alla scrivania?
«Fra un libro e l’altro mi prendo una pausa. Bisogna aspettare un po’ perché risorga qualcosa che hai già scritto nei libri precedenti ma hai dimenticato, e che riprendi cercando di svilupparla».
Che ne fa dei suoi manoscritti?
«Li accumulo dentro delle valige. Ora sembra strano. Perfino le persone della mia età per lo più scrivono al computer. Ma io preferisco che le correzioni siano visibili, così ci si rende conto meglio di certi tic. È un’attività che è già un po’ astratta. Ho sempre provato il bisogno, con un piccolo côté manuale, di fare dei ritocchi. E visto che è una procedura piuttosto lenta, il rischio è quello di scoraggiarsi: hai un’idea, ti ci vogliono parecchi giorni per scriverla e così perdi lo slancio. Quando è un po’ materiale è più facile. Capisco che su uno schermo sia più chiaro, ma io ho bisogno di questa lentezza. Se è troppo rapido, non c’è più materialità».
Un pedigree (2005), il suo solo testo esplicitamente autobiografico, è pieno di date. A che età ha avuto il suo primo diario?
«Non avevo un diario, ho cercato di ricostruire. Avendo avuto un’infanzia un po’ enigmatica mi sono concentrato sulle date, era il solo modo. È più facile se pensi agli anni di scuola, la quinta elementare, la prima media, la seconda media, così hai dei punti di riferimento. A partire dai diciotto- vent’anni hai delle agende dove annoti gli appuntamenti. Mi regalarono un diario quando avevo vent’anni. Ci annotavo delle cose che mi erano successe e mi avevano colpito. Per esempio mio padre mi aveva portato al commissariato di polizia e io ave- vo annotato la data. Non lo facevo perché pensavo che mi sarebbe potuto servire più tardi. In quell’episodio del commissariato, quello che mi succedeva mi sembrava così strano, ero come sdoppiato. A un certo momento, il commissario mi fece un’osservazione e minacciò di arrestarmi se facevo ancora l’imbecille, una piccola minaccia. Al limite avrei quasi desiderato che succedesse, la cosa mi interessava: era come essere spettatori di se stessi. Forse è questo l’inizio della scrittura: trovarsi in situazioni che ti riguardano concretamente e al tempo stesso non esserci affatto; avere paure e contemporaneamente essere interessato. Avevo questa impressione da bambino, quando andavo in giro: provavo paura ma al tempo stesso ero curioso di vedere cosa sarebbe successo».
Da giovane era come i narratori dei suoi romanzi, che non sono né alcolizzati né drogati?
«Ho la testimonianza di alcune persone che mi hanno incrociato quando avevo vent’anni, ed erano più grandi di me e non mi conoscevano. Dicevano, quando le ho rincontrate più tardi, che all’epoca pensavano che fossi drogato, che avevo un comportamento bizzarro, come di qualcuno che prende sostanze stupefacenti. Ero uno di quelli che vengono accusati di essere alcolizzati o drogati anche se in realtà sono sobri. Non avevo bisogno di ricorrere a quelle sostanze, ero già in stato secondo. Quando avevo cinque anni fui investito da una camionetta uscendo da scuola; non era niente di grave, ma mi addormentarono, all’epoca si applicava una maschera imbevuta di etere. In seguito ho sempre cercato di ritrovare quell’odore. C’erano questi flaconi blu scuro, che in seguito ho scoperto che erano fabbricati dall’editore di Genet, Marc Barbezat. Non sono diventato dipendente dall’etere, ma mi è rimasta a lungo questa attrazione. Aveva l’aria volatile, era piuttosto pesante. Riesco a capire l’alcolismo di tanti scrittori. Ma quando sei ubriaco fradicio, devi essere sicuro di avere qualcuno che ti riporterà a casa. I grandi scrittori alcolizzati, non arrivo a dire che abbiano avuto un’infanzia felice, ma sono sicuri di avere qualcuno che li riporterà a casa».
Lei ha fama di essere stato un amante degli scherzi.
«Non è così. Quando sei bambino o adolescente, se non ti senti troppo a tuo agio con un adulto, se non ti prendi, ti viene voglia di fargli uno scherzo. Io ne facevo pochi. A volte vendevo dei libri a dei negozi di antiquariato e scrivevo delle false dediche. Non era una burla, era quasi un trucco da falsario, una forma di truffa [una scena del genere viene descritta ne I viali di circonvallazione (1972), ndr ]. Ho ritrovato da un libraio qui vicino – e non ho osato dirglielo – delle false dediche che avevo fatto io. È diventata una burla perché spesso, nella biblioteca di certe persone, avevo preso l’abitudine di scrivere delle dediche assurde, per esempio di Simone de Beauvoir a Luis Mariano. I rari scherzi che ho fatto li ho fatti per il gusto delle mescolanze insolite, per far incontrare mondi estranei, personaggi eterocliti, per riuscire a incastrare gli opposti».
Dopo il Nobel ha visto risorgere persone del passato, come sperava in Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier (2014)?
«Qualche persona che avevo perso di vista sì, è spuntata fuori. In effetti è sempre lo stesso problema, che forse è legato alla mia età. Le persone che avrebbero potuto darmi dei ragguagli su cose che mi sono sempre sembrate enigmatiche ora sento che non è più possibile incontrarle: sono sicuramente scomparse, avevano quindici o vent’anni più di me. Ogni volta spero che ci sarà qualcosa, qualcuno che mi darà dei dettagli, ma la faccenda si restringe. Ci si accorge che siamo invecchiati perché è passato tantissimo tempo. In circostanze del genere, l’attenzione è attirata su di te, ma le persone che ti hanno conosciuto da giovane, con quegli spazi di tempo enormi, di quaranta o cinquant’anni, non fanno il rapporto. Ci sono state delle occasioni nella mia vita in cui avevo preso il nome di mia madre (mio padre non voleva più che portassi il suo). È stato verso i 19 anni, e persone che allora mi hanno conosciuto sotto un altro nome ora non possono identificarmi. Quando ero più giovane, nei miei libri, inviavo dei segnali morse per indurre le persone da cui vivevo da bambino, degli amici a cui i miei genitori mi affidavano, a manifestarsi. Facendo delle ricerche su internet ho percepito che perfino tecnologie così perfezionate come questa incontrano una resistenza, un blocco. Almeno è quello che immaginavo: sentivo che non sarei riuscito ad arrivare a quello che mi sarebbe piaciuto sapere. Eppure, se trovi una scappatoia, se riesci a mettere insieme due nomi, sono sicuro che esiste un mezzo per sapere. Forse è questo che l’aspetto romanzesco di internet».
©Libération
traduzione di Fabio Galimberti