Corriere della Sera, 31 dicembre 2014
Satana strumento di Dio, un diavolo cristiano che ha la funzione di difendere i diritti divini, osservando e spiando la condotta dei fedeli. Nel libro di Giobbe – che sfugge di mano come un’anguilla – demone e divinità si alleano per saggiare la fedeltà dell’uomo
Giobbe è, probabilmente, il testo più difficile e arduo dell’Antico Testamento. «Spiegare Giobbe – diceva san Gerolamo – è come cercare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si prende, più velocemente sfugge di mano». Non è un caso che il testo sia così arduo: l’esperienza di Giobbe non è astratta o teologica, ma profondamente e drammaticamente religiosa; è un conoscere Dio momento per momento, via via che si esprime e si contraddice, si muove, scivola via tra le mani, e mentre noi stessi ci muoviamo e ci contraddiciamo nei suoi confronti.
Come il Faust di Goethe, il Libro di Giobbe si svolge in due luoghi: il cielo e la terra. Nel cielo Dio è doppio o quasi doppio: vi è il vero Dio, che dice sono colui che sono, e i figli di Dio: una corte di angeli, tra i quali l’«avversario», il «satana», che non è affatto il nemico di Dio, come il diavolo cristiano, ma colui che ha la funzione di difendere i diritti divini, osservando e spiando la condotta dei fedeli.
Il «satana» ha appena compiuto un giro di ispezione sulla terra, perché Dio non possiede l’assoluta conoscenza visiva di ciò che vi accade: egli è l’occhio, l’esperienza del Signore. Dio gli dice che un uomo, Giobbe, è «una persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male». Il «satana» non mette né potrebbe mai mettere in dubbio la parola del Signore: ma aggiunge che Giobbe è buono perché Egli lo protegge, con una moltitudine di benefici. Non c’è nessuna prova – l’«avversario» aggiunge – che Giobbe ami Dio con un amore puro, assoluto, che non dipende dalla protezione. Allora il «satana» vuole «indurre in tentazione» Giobbe, come dice il Padre nostro. Il Signore acconsente.
Le prove si susseguono: le greggi, i guardiani, e i figli vengono massacrati, e i beni distrutti. Giobbe dà segno di un estremo dolore, e dice: «nudo dal grembo di mia madre sono uscito, nudo adesso ritorno. Dio ha dato, Dio ha strappato. Benedetto sia il nome di Dio». Dunque, non pronuncia una sola parola contro il Signore. Poi il «satana» prova Giobbe più tremendamente: nelle ossa e nella carne, con un’infezione maligna che lo avvolge dalla pianta dei piedi fino al cranio. A causa della malattia, egli viene escluso dalla vita religiosa di Israele, esposto ai rischi del deserto e dell’immondo. Ma Giobbe tace: secondo l’ Antico Testamento, l’uomo deve chiudersi nel silenzio, di fronte al dolore mandato da Dio: davanti a tutti i dolori, poiché tutti i dolori sono mandati da Dio.
All’improvviso, Giobbe urla, protesta, viola il silenzio che si era imposto. Maledice il giorno della propria nascita: quello del suo concepimento; ciò che è un modo implicito e indiretto di maledire Dio, che è in primo luogo Signore della creazione. Vuole diventare tenebra, morte: vuole essere avvolto dalla caligine, atterrito da una eclissi di sole. Maledice la fecondità e la vita, e di nuovo parla contro Dio, perché il Signore è colui che protegge la fecondità del mondo. Mentre condanna l’esistenza, egli accoglie ed esalta la morte, e Dio diventa il padre di un universo in cui tutte le differenze vengono cancellate nell’unità della morte. Come è lontana la Genesi, dove ogni cosa vibra di vita, di animazione e di colori.
Con un ultimo balzo mentale, Giobbe maledice la propria angoscia: la quale è provocata da Dio. «Le frecce del Signore si infiggono nel mio corpo». Come ogni uomo egli viene sottoposto a un servizio pesante: la sua vita sono mesi vuoti, notti di dolore, i suoi giorni scorrono veloci come spole, e fra poco egli scenderà negli inferi, per non risalire mai più alla luce. La sua morte è definitiva: non vi è alcuna speranza, per lui, come per gli ebrei del suo tempo, di rimettere foglie e fiori come alberi e piante. Rinascere e risorgere sono parole vuote. Tutta la natura risorge e rinasce tranne lui, Giobbe.
La cosa più spaventosa è che Dio lo considera troppo, sia pure per perseguitarlo: lo scruta con attenzione, lo ispeziona fin dal mattino, lo esamina ogni istante. L’uomo è una cosa piccolissima: e Dio lo vede come una cosa enorme, degna di essere spiata e perseguitata: mentre dovrebbe trascurarlo e dimenticarlo, come un’ombra senza vita né peso.
L’accusa di Giobbe si fa estrema: Dio diventa il carceriere e il torturatore incessante dell’uomo, circondato da un corteo di altri, minori ma non meno spaventosi torturatori. La preghiera di Giobbe è rancorosa e furibonda: «quando la finirai di spiarmi, e mi lascerai inghiottire la saliva». Via via, egli dice cose sempre più terribili contro il Signore: Dio è onnipotente e invisibile: «Egli mi incrocia per via eppure non lo vedo, sparisce e non me ne accorgo»; ma proprio perché è onnipotente, non è giusto: anzi è sommamente ingiusto. Giobbe immagina di essere chiuso in un’aula di tribunale, dove egli è l’accusato, e il Signore è insieme l’accusatore e il giudice. «Lì, anche se avessi ragione, non riceverei risposta: supponiamo pure che io lo invochi e che egli mi replichi, non credo che badi alla mia voce». Alla richiesta di giustizia, Dio risponde soltanto con la forza della sua onnipotenza. «Quand’anche fossi innocente, la sua bocca mi condannerebbe, quand’anche fossi giusto, egli mi dichiarerebbe colpevole». Il Signore sghignazza – questa è la parola precisa – sulla tragedia degli innocenti, e abbandona la terra in mano agli scellerati, suoi complici. È perfettamente inutile che l’uomo si affanni, faccia opere buone, sia virtuoso, retto e giusto, come raccomandava l’ebraismo del tempo: Dio condanna l’uomo a priori, perché è necessariamente colpevole.
Giobbe invoca una condizione impossibile: un vero giudizio, un vero giudice, che possa applicare quella cosa sconosciuta che è la giustizia. Se esistesse questo giudizio, egli parlerebbe senza timore: ma non esiste, ed egli non parla e si chiude nel silenzio assoluto dei muti e dei morti – la sola cosa che possiamo opporre all’onnipotenza di Dio. La speranza di Giobbe è quella di un mediatore tra Dio e l’uomo: un mediatore che, pur essendo prossimo all’uomo, possa parlare con Dio e persuaderlo. Solo la cristologia dei Vangeli raccoglierà la sfida di Giobbe, facendo balenare nell’uomo una possibilità di un mediatore perfetto, superiore all’uomo e identico a Dio.
Intanto Giobbe continua il suo processo contro il Signore onnipotente ed ingiusto. Lo accusa: sicuro che, nel lungo processo, Dio sarà dichiarato innocente, mentre è colpevole di ogni colpa. Giobbe gli chiede di non spaventarlo col terrore: ma Dio è sopratutto terrore. Il Signore si comporta come un nemico: lo accusa di delitti e di peccati, che Giobbe non ha mai commesso: redige verdetti assurdi e spietati, imputa a Giobbe le sue innocenti debolezze giovanili. Sopratutto spia tutti i passi di Giobbe, esamina tutte le sue impronte; e niente è più terribile di quest’occhio che, sia pure attraverso lo sguardo del «satana», non abbandona per un istante l’uomo, consegnandolo alla colpa inesistente. Ma le parole di Giobbe sono fuori luogo: Dio non può smettere di spiare; poiché Egli non può rinunciare al tratto più evidente della propria onnipotenza.
Nel Libro di Giobbe, si agita un bisogno e un desiderio di completezza: perché vuole raccogliere tutte le accuse che, in tutti i tempi e in tutte le religioni, l’uomo abbia mai rivolto a Dio. Preda di una specie di ossessione enciclopedica, Giobbe accusa senza perdonare mai, accusa ed accusa, come del resto fa il Signore nei suoi confronti. Le parti sono continuamente rovesciate. Giobbe esaspera le proprie parole: Dio è il capo di una banda di criminali, e nell’orribile mondo divino, il malvagio viene strappato alla catastrofe, e giunge a diventare un modello di vita per i contemporanei e per i posteri. «Gli saranno lievi le zolle della valle». «Gli empi spostano i confini, fanno pascolare greggi razziate, rapinano l’asino degli orfani, pignorano il bue della vedova». Dio resta sordo a tutte le infamie compiute dai suoi complici, e viene protetto da queste infamie.
Mentre Giobbe accusa Dio di ogni crimine, afferma di essere giusto. «Sono perfetto e retto, nemico del male», come aveva raccontato l’inizio del testo: giusto anche in questo momento, quando è immerso in dolori che i suoi nemici proclamano meritati. «Non conosco – dice – nemmeno l’ombra del male: le mie sventure sono assolutamente immeritate», peccati compiuti da quell’immenso colpevole che è il Signore. «Non c’è violenza nelle mie mani, la mia preghiera è sincera, non pronuncio menzogne», così egli ripete, cercando di giustificarsi senza fine davanti a sé stesso, agli amici e al Signore, e svelando tratti di cattiva coscienza. Come un principe reggente, avanza il documento della sua denuncia contro Dio: su di esso ha apposto la sua firma, e resta in attesa che Dio replichi. Giobbe è sicuro: solo violando le regole del processo, il Signore potrà risultarne innocente. Ma Dio violerà ogni regola, come è sua abitudine.
Alla fine la parola di Giobbe si spegne. «Oh, datemi qualcuno che mi ascolti! Il Signore mi risponda». Dio prende la parola; e come sua abitudine esalta sé stesso. Si esalta come autore dell’immensa e meravigliosa creazione di cui Egli è sommamente fiero. Non c’è nessun evento che Egli ignori ripercorrendo la Genesi e i Salmi, versetto dopo versetto. Ricorda il giorno in cui le stelle Lo acclamarono e gridarono la loro gioia: quando Egli domò il mare, spezzando il suo slancio e imponendogli confini, spranghe e battenti, dicendogli: «Fin qui tu verrai e non oltre»: quando fece sorgere l’aurora, distribuì la luce e la tenebra, controllò i serbatoi della neve e della grandine, diresse pioggia, rugiada e ghiacci: accese le Pleiadi, Orione, lo Zodiaco, l’Orsa: foggiò la sapienza dell’ibis, la perspicacia del gallo, la leonessa cacciatrice, il cervo, l’asino selvaggio, lo struzzo; e infine i grandi, meravigliosi mostri che esprimono insieme l’immaginazione e il furore della natura e di Dio, Behemoth e il Leviatano.
Dio non si cura affatto di spiegare le origini e la ragione del dolore, come Giobbe gli aveva domandato. Il Signore esalta la propria onnipotenza che Giobbe conosceva benissimo, come tutti gli ebrei del suo tempo. Non è una risposta né per noi né per Dio né per Giobbe. Eppure è una risposta. Proprio perché il Signore è onnipotente, il dolore non può venire spiegato. Cercare di spiegare la complessità di Dio è il primo degli errori dell’uomo. Rinunciare a capire il dolore, significa vedere Dio, comprendere Dio, amare Dio, sebbene sembri impossibile.
Nelle ultime parole del Libro avviene qualcosa che ci pare impossibile. Giobbe ci era sembrato così intelligente, così sottile, così capace di cancellare il sofisma del Signore: la sua teologia dell’onnipotenza. Eppure cede: «Riconosco che tutto puoi, e che nessun progetto per te è irrealizzabile. Chi è mai colui che, senza intelligenza, può oscurare i tuoi piani? Ho affrontato da insensato misteri che superano la mia comprensione... Io ti conoscevo solo per sentito dire: ora i miei occhi ti hanno veduto. Per questo io ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere». Giobbe impallidisce: si spegne; rinuncia a accusare Dio della sua colpa misteriosa: il dolore dell’uomo e dell’universo.
Giobbe ha ritrattato. Tutte le proteste e le accuse che egli ha rivolto contro Dio vengono cancellate come se non avesse mai parlato – mentre ha detto cose inconfutabili, che nessuna anima religiosa, né ebraica né greca né cristiana può dimenticare. Il testo-anguilla, il testo-murena, ha abolito sé stesso ed è rinata la mirabile ed assurda semplicità dell’inizio: Giobbe virtuoso e benedetto da Dio. «Il Signore cambiò la sua sorte: anzi il Signore raddoppiò tutti i beni di Giobbe. Benedisse la nuova vita più dell’antica: ebbe quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asini, ebbe sette figli maschi e tre femmine... Visse centoquaranta anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni e morì vecchio e sazio di giorni».
Curiosa conclusione. Tanta virtù e felicità e ricchezza, tante pecore, buoi e cammelli e figli e figlie e nipoti e anni e anni, e generazioni dopo generazioni non ci dicono assolutamente nulla. Giobbe resta, per noi, colui che ha sofferto, ed è giunto a Dio attraverso la sofferenza. Così riconosce lo stesso Dio, che afferma due volte che egli ha parlato di lui «con fondamento», fondamento del male e del dolore.