Corriere della Sera, 31 dicembre 2014
Il grande gioco del Quirinale spiegato da Salvatore Sechi, il consigliere giuridico di Cossiga, Scalfaro, Ciampi e Napolitano: «I partiti scelgano un politico e non un capo dello Stato»
Tra un paio di settimane, quando Giorgio Napolitano formalizzerà le proprie dimissioni, l’Italia entrerà in quell’euforia politicamente rumorosa che è tipica di ogni cambio della guardia al Quirinale. Chi sarà il nuovo capo dello Stato? Che biografia avrà? Quale maggioranza lo eleggerà, dopo quanti scrutini e attraverso quale percorso? E, considerato che, come molti sostengono, «le leadership hanno sostituito la politica», è meglio affidarsi a una personalità estranea ai partiti e disponibile a riportare la presidenza della Repubblica in una dimensione silenziosa e poco interventista? O è invece preferibile un uomo (o una donna) con adeguato tirocinio «dentro» la politica e in grado di fare il «motore di riserva» se il sistema s’inceppa?
Questioni di metodo e di merito sono insomma destinate a intrecciarsi, in questa vigilia carica di incognite. Per mettere a fuoco qualche ipotesi su quanto ci aspetta e sgombrare certe opache profezie, è utile il parere di un civil servant come Salvatore Sechi, consigliere giuridico di Cossiga, Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Ovviamente Sechi condivide «l’auspicio che la scelta del nuovo presidente maturi fin dalla prima votazione, come fu per Cossiga e Ciampi». Sarebbe «un modo per smentire la pretesa irrimediabilità della crisi politica e istituzionale in cui il Paese si macera», dice, «anche se una soluzione diversa non sarebbe per forza sbagliata». Ma avverte che, per vincere una simile prova, risulterà decisivo il ruolo di chi farà il king maker. «Tutto sarà legato alla sua autorevolezza e al patto di lealtà che riuscirà a costruire intorno alla propria ipotesi sin dalla fase dei sondaggi preliminari. De Mita e Veltroni riuscirono nell’impresa, con Cossiga e Ciampi appunto, proprio perché avevano preparato bene il terreno».
Solo che stavolta il terreno della politica sembra molto infido. Forse è rimasto quella palude di franchi tiratori che nel 2013 inghiottirono Marini e Prodi. Un esempio? Il grande gioco del Quirinale è oggi subordinato alla capacità di superare la sfida degli interessi – differenti ma convergenti – che potrebbero vedere la minoranza del Pd associarsi ai 5 Stelle e ad altre formazioni per far fallire il disegno del premier, dopo il suo annuncio di voler fare il «regista» dell’operazione. E l’argomento a sostegno di queste ansie di sabotaggio è già venuto alla luce: diroccare il Patto del Nazareno, del quale la scelta per la presidenza sarebbe un’appendice, evitando che Forza Italia concorra alla nomina del successore di Napolitano. Scenario che fa rabbrividire il giurista. Spiega infatti che «una conventio ad escludendum costruita come un dispetto quando si tratta di eleggere un capo dello Stato risulterebbe sbagliatissima. Sia in un’ottica politica, sia perché contraria allo spirito della Carta. Basta porsi un paio di domande. Se da ormai più di vent’anni è stato archiviato perfino lo schema dell’arco costituzionale su cui faceva perno la Prima Repubblica, come non pensare che nuove preclusioni attribuirebbero in partenza al futuro inquilino del Colle una coloritura politica che non compete alla carica? Come non capire che il presidente potrebbe risultarne condizionato, anche al di là delle sue migliori intenzioni?».
Interrogativi cui se ne aggiunge un altro, più ambiguo: data la situazione italiana, quale è il profilo più appropriato per il nuovo presidente, dopo la stagione forte e positivamente ingombrante di Napolitano? Domanda non oziosa se si riflette sulle smanie di discontinuità di chi propone figure che siano espressione della società civile o del mondo della cultura (vedi il sondaggio virtuale su Muti e Piano) o qualche studioso con una sorta di «abilitazione tecnica», diciamo così, a salire sul Colle (è la suggestione d’incaricare un giudice costituzionale). Sarebbe un altro grave errore, secondo Sechi.
Per lui, «azzardare la candidatura di un non politico, quasi che questo tratto identitario offrisse di per sé garanzia di castità istituzionale, sarebbe solo un modo sbrigativo per lavarsi la coscienza e confermerebbe la svalutazione della politica in quanto tale. Se i partiti cedessero su questo fronte, oltre a mettersi sulla scia di quanti delegittimano il sistema, dimostrerebbero scarsa lucidità. Non per nulla a un presidente si chiede, accanto alle doverose doti di neutralità ed equilibrio senza condizionamenti, di essere inserito nella dinamiche della politica. Di capirle e di sapersi muovere senza difficoltà nelle mutevoli cornici in cui essa si inscrive». E, Sechi non lo dice ma è scontato che lo abbia presente, senza consegnarsi alla corte di palazzo: una nomenklatura invisibile che, con un padrone di casa intimidito da un lavoro che non conosce, rischierebbe di diventare troppo potente.
Certo, ragionando in una prospettiva storica ci sono due precedenti di non politici importanti e amati, nella storia del Quirinale: Einaudi e Ciampi. «Entrambi seppero però farsi politici, quando fu necessario, sanando le fratture istituzionali e comunque preservando la stabilità», ricorda il consigliere. «Ciampi, tanto per dire, era quasi in difficoltà psicologica il giorno in cui salì al vertice della Repubblica. Poi però seppe esercitare le sue funzioni nel migliore dei modi. Si sa, non esiste un cursus studiorum per i politici. Ma, anche se al Quirinale si impara presto come muoversi, perché rischiare con un presidente a caso?».
Già, e questo introduce a un altro nodo del dibattito in corso. Cioè alle indiscrezioni secondo le quali il premier Renzi, che tiene le sue carte ancora coperte, vorrebbe mettere in sella una figura che non gli faccia ombra e quindi di scarso «peso». Un uomo che faccia tornare l’istituzione presidente della Repubblica in una sfera politicamente poco penetrante e incisiva, al rango decorativo di un «taglianastri», come si diceva un tempo. Calcolo temerario pure questo, per Salvatore Sechi. «Chiunque salga al Colle, anche se non è mai stato un leader prima, impiega pochissimo a capire di quali prerogative dispone e a usarle quando serve al bene del Paese, senza trasformarsi in partigiano del governo e senza fiancheggiare l’opposizione come sempre si spera, in questo nostro bipolarismo barbarico». E, a proposito di speranze improprie, sono destinate a cadere pure quelle di chi crede che il prossimo capo dello Stato debba essere a termine, perché eletto da un Parlamento destinato a cambiare con la riforma del Senato. «Si può almanaccare pure su questo, ma è una prospettiva inconsistente. Quel mandato non è mai a termine e, una volta eletto, nessuno potrà obbligare il presidente a lasciare prima dei sette anni canonici. In un certo senso, vale il raffronto con il paradigma Usa: dopo il voto di midterm, a Washington c’è ora un Congresso in mano ai repubblicani, mentre alla Casa Bianca regna un democratico. Ci potrebbero essere ragioni funzionali per spingere Obama ad andarsene, ma la convivenza continua senza che ci si sogni di chiedergli di lasciare. Ecco il valore delle regole, che nessuno può aggirare».