La Stampa, 30 dicembre 2014
La riforma del bicameralismo, l’adozione d’un nuovo sistema elettorale e l’elezione del Capo dello Stato sono le premesse necessarie, anche se tutt’altro che sufficienti, perché il 2015 sia ricordato come l’anno in cui il Paese si è riavviato alla normalità (relativa, s’intende: siamo pur sempre in Italia)
I primissimi mesi dell’anno entrante saranno cruciali per capire che cosa sarà dell’Italia politica – per sapere se stiamo cominciando a uscire dalla crisi istituzionale o se dobbiamo restarci immersi ancora a lungo. La riforma del bicameralismo, l’adozione d’un nuovo sistema elettorale e l’elezione del Capo dello Stato – per il numero di votazioni che saranno necessarie più ancora che per chi verrà scelto – sono le premesse necessarie, anche se tutt’altro che sufficienti, perché il 2015 sia ricordato come l’anno in cui il Paese si è riavviato alla normalità (relativa, s’intende: siamo pur sempre in Italia).
Sperare che la soluzione dei nostri problemi possa prescindere dalla ricostruzione dell’assetto politico e istituzionale è un’illusione pericolosa. Finché non saranno provvisti d’una robusta legittimazione elettorale; appoggiati a maggioranze parlamentari ampie, stabili e omogenee; capaci di attuare le decisioni senza doverle far passare per gli stravolgimenti di mille forche caudine – fin quando tutto questo non sarà dato, non è da sperare che i governi italiani avranno mai la forza di imporre scelte dolorose. E immaginare che l’Italia possa rimettersi in carreggiata senza che nessuno paghi il minimo prezzo è un’illusione più perniciosa ancora di quella descritta in precedenza. Sarà solo per un caso, del resto, se la spending review si è inabissata; se il taglio delle partecipate è ancora di là da venire; se il Jobs Act non si applica al pubblico impiego? Sarà, come ha sostenuto ieri Renzi, per ragioni tecniche e di calendario, e tutto questo arriverà nei prossimi mesi? O non è piuttosto perché il governo, a dispetto della sua stessa retorica, non ha la forza politica per mettere le mani là dove è più necessario ma anche più pericoloso, ossia nell’apparato pubblico?
Rispetto a dodici mesi fa, alla fine del 2013, l’Italia si presenta al tornante cruciale di questo inizio di 2015 con una risorsa politica in più e una in meno. La risorsa in più, piaccia o non piaccia, è Matteo Renzi. L’uomo ha non pochi difetti. Può risultare parecchio urtante – ne ha dato un’ultima prova ieri in conferenza stampa. Seleziona i propri collaboratori sulla base di criteri tutt’altro che inappuntabili: un «vizio» del quale rischia di essere lui stesso la prima vittima. Anche l’azione di governo che ha svolto finora mostra molti limiti, come abbiamo già notato.
Detto tutto questo, però, Renzi ha avuto un merito indiscutibile: ha restituito un baricentro a un sistema politico che dal 2011 – con la crisi del berlusconismo; il fallimento del Partito democratico; la dimostrazione di macroscopica insufficienza fornita dalle due antipolitiche, la tecnocratica di Monti e la digital-populista di Grillo – ne era rimasto pericolosamente privo. Questa sua virtù è più importante di tutti i suoi demeriti: un sistema politico ricostruito potrà sanare domani le insufficienze dell’azione di governo di oggi; un’azione di governo anche migliore oggi non potrà mai dare alcuna garanzia quanto alle decisioni di domani. Retrospettivamente, anche chi all’epoca era scettico (Renzi direbbe gufo), come chi scrive, deve riconoscere che la decisione di sostituirsi a Letta a Palazzo Chigi si è dimostrata giusta. Almeno finora.
La risorsa che l’Italia si avvia a perdere in questo inizio di 2015, rispetto a dodici mesi fa, è ovviamente Giorgio Napolitano. Se dalla tempesta del 2011 siamo arrivati a oggi ancora vivi, ancorché stremati, lo dobbiamo soprattutto a lui. Ha fatto degli errori, il Presidente della Repubblica, in questi ultimi tre anni? È possibile. Magari sarebbe stato meglio andare al voto subito dopo la crisi dell’ultimo governo Berlusconi – anche se, nel corso d’una bufera finanziaria di quella portata, e soprattutto in presenza di un Parlamento disposto a votare la fiducia, non sarebbero stati piccoli né il rischio né la forzatura; e non è affatto detto che da quelle elezioni sarebbe uscita una maggioranza. Magari Napolitano avrebbe dovuto scegliere Renzi e non Letta già nell’aprile del 2013. Gli storici del futuro, col vantaggio d’una visione retrospettiva più profonda di quella che ci è possibile oggi, e provvisti di informazioni più affidabili, potranno dircelo. Ma non sarà facile nemmeno a loro dimostrare che le vie alternative a quelle scelte dal Presidente ci avrebbero traghettato verso condizioni tanto migliori di quelle in cui siamo adesso.
Nelle prossime settimane la risorsa politica che stiamo per perdere lascerà tutto il campo a quella che abbiamo guadagnato. Per qualche tempo Renzi volteggerà sul filo senza la rete del Quirinale. Riuscendo a non cadere, dovrà ricostruirsi lui stesso una rete nuova – un nuovo Capo dello Stato, un nuovo sistema elettorale, un nuovo assetto istituzionale. Sperare che il presidente del Consiglio cada dal filo, o anche cercare di spingerlo giù, è del tutto legittimo. Quel che non è legittimo però, di fronte al Paese, è farlo senza avere la più pallida idea di che cosa debba venire dopo.