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 2014  dicembre 30 Martedì calendario

L’Airbus precipitato. Non può essere tutta colpa delle turbolenze. Spesso l’errore umano è complice. In caso di vuoto d’aria o di wind share, i piloti che volano ad alta quota (come l’aereo di Air Asia) hanno tutto il tempo di recuperare se scendono, per esempio, da 10.000 metri a 9.800. Il margine di sicurezza è enorme. Però questo margine si annulla se l’aereo va in stallo, cioè se perde all’improvviso tutta la portanza. Allora cade come un sasso e recuperare è difficilissimo...

In certi casi sì, il maltempo può essere causa sufficiente di un disastro aereo. Ma bisogna distinguere. Il cosiddetto «vuoto d’aria» (in realtà una corrente discensionale, che spinge l’aereo in giù) è pericoloso solo a bassa quota, perché in fase di decollo o di atterraggio qualche decina di metri possono fare la differenza. Lo stesso vale in caso di «wind shear» (cambio improvviso di direzione del vento). Invece ad alta quota (dove volava l’Airbus) i piloti hanno tutto il tempo di recuperare se scendono, per esempio, da 10.000 metri a 9.800. Il margine di sicurezza è enorme. Però questo margine si annulla se l’aereo va in stallo, cioè se perde all’improvviso tutta la portanza. Allora cade come un sasso e recuperare è difficilissimo.
Di solito i temporali si aggirano, non si scavalcano, per due ragioni. La prima è che le turbolenze potrebbero colpire l’aereo anche al di sopra del temporale. La seconda e più importante, citata da un pilota (anonimo) dell’Alitalia, è che «più salgo di quota, più si assottiglia il margine di sicurezza dal punto di vista dello stallo. Semmai conviene fare il contrario, cioè scendere di quota per ampliare quel margine. Salire non è proibito, a volte lo si fa, se il temporale non è molto violento. Ma nei climi tropicali questo tentativo è ancora più pericoloso. La manovra più frequente è aggirare il temporale sopravvento».

Rispondere con un netto «sì» sarebbe scorretto, ma il dubbio non è campato per aria. Pietro Pallini, ex pilota fra Europa e Sud America, dice che su quella rotta «oggi ci vogliono 15 o 20 minuti in più di vent’anni fa e si consumano 2 o 3 tonnellate di carburante in meno», perché gli aerei vengono fatti volare più lentamente. Questo potrebbe avvicinare il velivolo alla velocità di stallo. Ma solo in teoria, perché il margine resta considerevole. Secondo alcuni piloti, oggi si aggirano anche i temporali a distanze minori, per non allungare la rotta e non consumare più carburante. Però questo non vuol dire che si giochi con le nostre vite. Dentro ai temporali i piloti non ci portano, perché al loro interno è più difficile manovrare; l’acqua di una bufera tropicale può far spegnere un motore; chicchi di grandine grossi come arance possono bucherellare le ali; e nei casi estremi, le ali o gli elementi di coda si possono staccare. Non sono eventi probabili, ma non ci si infila nei temporali per scoprire quanto lo siano.

Il silenzio sui problemi improvvisi a bordo non è infrequente: se c’è un’emergenza, i piloti cercano innanzitutto di superarla, e di solito ne riferiscono a terra solo a cose fatte. Se poi tutto va male, a parlare sarà la scatola nera. Un’altra cosa che ci sorprende ogni volta è che la posizione di un relitto di aereo in mare sia così difficile da stabilire. Un volo non è monitorato in ogni fase? La risposta è no. Per esempio, quando un jet vola fra Roma e New York per tre o quattro ore, nel bel mezzo dell’Atlantico, non si trova alla portata di alcun radar a terra. Tocca ai piloti, a scadenze fisse, calcolare la posizione e comunicarla. In caso di incidente le coordinate restano indefinite. I satelliti militari delle superpotenze, in teoria, potrebbero vedere ogni aereo in ogni angolo del globo e in ogni istante, compreso quello in cui si inabissa; ma a quanto pare non ne sono in grado, o non collaborano alle ricerche.