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 2014  dicembre 30 Martedì calendario

Federico Fellini e quel primo tram per Cinecittà: «Era un sogno sapere che in Italia esisteva qualcosa di simile a Hollywood. Appena sono entrato ho pensato di essere sul set di un Ben Hur laziale»

 Cosa le viene in mente quando sente pronunciare la parola “Cinecittà”? «Posso dirle che cosa mi veniva in mente le prime volte che l’ho sentita. Era qualcosa di oltremodo favoloso, un po’ come se doman-daste a un medico o a qualcuno che sente di avere una vocazione per la medicina cosa significano per lui le parole “policlinico” o “ospedale”, o come se chiedeste a un bambino che ha una vocazione religiosa cosa evoca in lui il sentir parlare del Vaticano o della Basilica di San Pietro. Quando ero piccolo questa parola, “Cinecittà”, evocava l’idea di una dimensione che avrebbe fatto parte della mia vita.
Dal punto di vista della seduzione, di un’attrattiva esteriore, si trattava della città del cinema, dunque della città delle attrici, delle dive. La mia generazione è nata con il mito del cinema americano. Siamo stati tutti affascinati dalle star di Hollywood, da Clark Gable, Gary Cooper. Per me, che abitavo a Rimini, una cittadina di provincia, il fatto di sapere che anche in Italia c’era una Cinecittà, vale a dire qualcosa di simile a Hollywood, era motivo di grande eccitazione, di grande seduzione(...).
Ricordo ancora la prima volta che sono arrivato, in tram, un piccolo tram che partiva dalla stazione ferroviaria, si lasciava alle spalle la città e attraversava chilometri e chilometri di campagna in mezzo alle rovine di un acquedotto romano. Alla fine compariva questa specie di costruzione che assomigliava veramente a un ospedale o a una città universitaria e, invece, aveva quel nome magico, Cinecittà(...). Ricordo che in quel momento c’era Blasetti, il Regista con la R maiuscola, intento alle riprese, se non ricordo male, di La corona di ferro. Sono quindi piombato in mezzo a una dimensione cinematografica molto italiana:(...) una sorta di Quo vadis? fatto in casa, di Ben Hur laziale, e al centro di tutto questo polverone fatto di comparse vocianti, soldati, schiavi, cocchieri tirati da cavalli, al di sopra di questa marea di persone a un certo punto ho visto alzarsi il braccio di una gru che saliva, saliva, sempre più in alto e, su questa gru, c’era il regista, il regista nella sua massima espressione di apoteosi(...) che si innalzava sempre di più, che saliva verso il sole, verso le nuvole… In seguito Cinecittà è veramente diventata la mia città(...). È la dimensione per me più congeniale, qualcosa di simile, come dicevo prima, all’ospedale per il medico, al palazzo di giustizia per l’avvocato».
Nei suoi primi film, Lo sceicco bianco e La strada, ci sono molti esterni; poi, a poco a poco, lo studio diventa sempre più importante, fino ad arrivare a E la nave va, che è tutto girato utilizzando scenografie artificiali.
«Anche in Lo sceicco bianco, in realtà, ci sono delle sequenze girate a Cinecittà, ad esempio tutte quelle in cui viene utilizzato il trasparente; tutta la scena del mare è stata girata nel teatro di posa(...). Anche nei Vitelloni ho girato qual- cosa a Cinecittà(...). Il cinema è fatto di immagini. Il cinema è un’immagine, e l’immagine la si mette a punto servendosi della luce, perché è la luce che crea l’immagine. In questo senso penso che il cinema abbia veramente uno stretto legame con la pittura e quindi anche con la luce. La luce in uno studio la si può esigere, controllare, modellare. Ci si può esprimere con la luce; in esterno tutto ciò diventa più complicato(...). Penso che lo studio sia l’ambiente nel quale l’immagine che abbiamo immaginato può essere realizzata esercitando un controllo completo, in maniera si- mile a quanto fa il pittore utilizzando il pennello sulla tela(...). Nella misura in cui l’espressione cinematografica è realmente un artificio, è normale che si tenda a realizzare tutti i film in teatro di posa(...)».
Costruire un mare di plastica la diverte?
«Non è questione di divertimento. Credo che ogni atto espressivo riempia il suo autore di un’energia vivificante, e in tal senso può forse essere anche considerato un divertimento. Si tratta sempre di un grande gioco, di un teatro delle marionette, di ombre cinesi, di un mola di dipingere, di una maniera di partecipare gioiosamente a quell’attività semidivina che è la creazione. In tutto ciò c’è un’esaltazione di sé, del proprio ego… C’è qualcosa di gratificante. Si tratta del divertimento sperimentato dal bambino quando gioca. Il mare di plastica è un’esigenza espressiva».
Quando gira nel quartiere monumentale dell’Eur, a Roma, in genere lo utilizza come fosse una scenografia realizzata in uno studio cinematografico.
«L’Eur, con i suoi grandi cubi di marmo, a sua linearità, dà quest’immagine di città metafisica, alla de Chirico(...). Ho girato diverse sequenze in esterno all’Eur, e ho anche ricostruito artificialmente il quartiere nell’episodio di Boccaccio ’ 7-0, rifacendolo praticamente tutto in miniatura(...). All’Eur ho girato anche alcune scene di La dolce vita. Si tratta di una zona che mi affascina per via di questa sua capacità di suggestione scenografica».
Quando lavora in studio, che tipo di rapporto ha con lo scenografo, il costumista, il direttore della fotografia?
«Un rapporto dispotico, dittatoriale, di autorità assoluta: devono fare quello che dico! [ride]. In realtà, ho con loro un rapporto eccellente, si tratta di amici. Lo scenografo e il direttore della fotografia sono il braccio destro e quello sinistro dell’autore, sono le sue dita, i suoi occhi».
La sua immaginazione e la sua fantasia trovano il modo di esprimersi nella maniera più naturale in studio, piuttosto che in esterno.
«Sì. Dato il tipo di storie che racconto o che ho intenzione di raccontare, mi sembra di riuscire a essere più preciso, di non affidare nulla al caso(...). In un teatro di po- sa è possibile esercitare un controllo maggiore di quanto non si possa fare affidandosi alla luce del sole(...)».
Alla fine di E la nave vaven-gono mostrati allo spettatore la cinepresa e il teatro. È un omaggio a Cinecittà?
«Un omaggio a Cinecittà? E se avessi girato il film altrove? Non si tratta di un omaggio a Cinecittà, è piuttosto un omaggio al cinema, all’espressione cinematografica. È anche un modo, perlomeno nelle mie intenzioni, di esprimere il mio punto di vista con una certa modestia. (...) Questa cinepresa che ardo retra e che disvela allo spettatore lo studio, l’artificio, il grande palcoscenico mobile sorretto da pistoni, i fondali, tutta la troupe, i trucchi cinematografici, era un modo per dire: “Io sono uno che fa cinema, quindi ho raccontato questa storia ma l’ho fatto a partire dal mio punto di vista, che è quello di un uomo di spettacolo(...). Io sono innamorato del set, dello studio, delle quinte, delle luci, dei riflettori. Avevo quindi voglia di mostrare i miei mezzi espressivi, in maniera analoga a un pittore che facesse delle foto al suo atelier, con i suoi cavalletti, le sue tele, le sue tavolozze, i suoi stracci”. Volevo anche mostrare allo spettatore malato e assetato di realismo(...) il rovescio della scenografia e dirgli: “Sì, è vero, è tutto un artificio, una finzione, guarda, è addirittura una finzione totale, ma talmente complessa, in grado di ricorrere a una tale quantità di macchinari, che si giustifica da sé”».
Non ha l’impressione che lo studio sia anche, da parte sua, un modo per proteggersi dal mondo esterno?
«No, perché a conti fatti la vita all’interno di una troupe cinematografica (...) è veramente un apologo della vita sociale, quindi non ho affatto l’impressione di proteggermi. Quest’accusa potrebbe essere rivolta a chiunque».
Non è un’accusa.
«Ad ogni modo, è un’osservazione che potrebbe essere fatta anche a proposito di un chirurgo: “Ma lei, che se ne sta sempre in clinica a operare, non si distacca troppo dai problemi della vita?”. Lo stesso si potrebbe fare con uno scrittore, con chiunque; anche con un astronauta (...)».
(Traduzione di Marco Zerbino. Colloquio registrato nel 1984 e uscito su Positif nel febbraio del 1986)