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 2014  dicembre 30 Martedì calendario

È meglio saper parlare lo spagnolo o l’olandese rispetto al cinese. Ecco la mappa delle lingue più influenti a livello mondiale. Uno studio del Mit esamina le traduzioni di libri, i tweet e le voci di Wikipedia e stabilisce le connessioni permesse da ogni idioma. I risultati non premiano sempre i più diffusi a livello globale: oltre all’inglese è meglio conoscere quelli parlati da popolazioni poliglotte e che usano attivamente la Rete

Se l’estate scorsa è stata segnata da «Yo la tengo como todas» di Laura Pausini in Perù, nell’inverno è risuonata una frase per certi versi analoga, anche se di diversissima provenienza: il «Somos todos americanos» con cui Barack Obama ha annunciato le nuove relazioni diplomatiche con Cuba. In comune le due affermazioni hanno più delle parole «todos» e «todas». Innanzitutto constatano entrambi due ovvietà, che nelle rispettive circostanze prendono però una rilevanza normalmente riservata alle novità assolute. In secondo luogo sono entrambe frasi in lingua spagnola (cioè, in castigliano), pronunciate da parlanti non di madrelingua. Nella nazione di cui è presidente Obama la lingua spagnola è la più diffusa, dopo l’inglese; in quanto alla brava cantante romagnola, spopola soprattutto in America Latina e chissà che non le possa capitare presto di tenere un concerto all’Avana.
Proprio lo spagnolo emerge come lingua che conviene conoscere, ancora più del cinese, per chi intenda farsi capire. Questo almeno seguendo uno studio appena pubblicato sul sito della statunitense National Academy of Sciences, dedicato al modo in cui i poliglotti diffondono informazioni e idee nelle diverse parti del mondo. Un gruppo internazionale di ricercatori guidato da Shahar Ronen, del Mit, ha studiato i rapporti fra le diverse lingue in tre campi: le traduzioni di libri, Twitter e le revisioni di voci di Wikipedia. L’inglese è risultata la lingua che ha il numero di maggiori contatti con le altre lingue in tutt’e tre le reti: ci sono più twittatori che scrivono in due lingue fra cui l’inglese, più libri tradotti in o dall’inglese, più revisori di Wikipedia che hanno lavorato su voci anche in inglese.
Questi calcoli sono indipendenti dal numero di persone che effettivamente parlano l’inglese. Sia il cinese mandarino, sia l’hindi, sia l’arabo hanno centinaia di milioni di parlanti, ma comunicano relativamente poco con altre lingue. La lingua olandese, invece, ha molti madrelingua in meno: ma i suoi 27 milioni di parlanti conoscono bene l’inglese e usano molto di più Internet e altre lingue, così l’olandese risulta avere più contatti con le altre culture dell’arabo.
Nella mappa linguistica del mondo si apre così una spaccatura che non è tanto dettata dal numero di persone che parlano una certa lingua quanto dall’ampiezza delle connessioni consentita dalla conoscenza di una lingua. Da questo punto di vista, dovendo scegliere se imparare lo spagnolo o il cinese, è ancora preferibile lo spagnolo anche se non si governano gli Stati Uniti o non si canta in Perù: non tanto perché ci sono molti ispanofoni, quanto perché gli ispanofoni comunica- no di più con parlanti di altre lingue.
Naturalmente il discorso si inverte se l’intenzione non è quella di diffondere i propri messaggi il più possibile, ma quella di proteggere l’autonomia della propria lingua. È il dibattito che attualmente, in Italia, divide i linguisti e l’accademia della Crusca dalle università italiane che propongono interi corsi di laurea in inglese, separando così dall’italiano porzioni crescenti di conoscenza. Come fare in modo che i laureati non siano tagliati fuori dai mercati globali per carenze linguistiche? La risposta è: facendoli studiare direttamente in inglese. Ma così l’inglese diventerà l’unico punto di vista e l’unico modo di organizzare la conoscenza, nei settori tecnologici, economici e commerciali più strategici.
Una lingua con le tradizioni letterarie e con l’importanza storica dell’italiano dovrebbe essere messa in condizioni di equilibrio e il sistema scolastico e universitario dovrebbe provvedere a stimolare sia l’apprendimento di altre lingue, nei madrelingua italiani, sia l’apprendimento dell’italiano, nei madrelingua stranieri. Come per la cosiddetta fuga di cervelli, il problema non è l’espatrio di ricercatori italiani, ma la scarsa immigrazione di ricercatori stranieri.
La spaccatura fra lingue interconnesse e lingue non interconnesse è infatti un indice di potenza reale (naturalmente per chi ha anche qualcosa da dire). Nelle tabelle dello studio di Ronen e associati l’Italia è messa bene per quanto riguarda le traduzioni (quarto posto) e le revisioni di Wikipedia (quinto posto), mentre non compare fra le prime sette lingue in cui twittano i poliglotti. I recenti dati Eurostat sulla connessione a Internet degli italiani sono peraltro sconfortanti (un italiano su tre non è mai entrato in Rete; la media europea è di un cittadino su cinque) e a quanto pare è possibile concludere che quella spaccatura attraversi la popolazione italiana: fra chi legge e scrive in più di una lingua, chi si collega al mondo ogni giorno e chi invece vive in una dimensione più raccolta e intima e continua a perpetuare il suo modo di vivere anche perché è informato da agenzie di cui non può verificare l’attendibilità.
Alla fine basterebbe potenziare la diffusione di Internet e l’efficacia e l’autorevolezza delle scuole, magari smettendo di mortificarle come si fa quando si spaccia per «meritocrazia» la somministrazione di metodi di valutazione confusi, burocratici e sbagliati. Gianni Rodari diceva: «Tutti gli usi della parola a tutti: non perché tutti siano artisti ma perché nessuno sia schiavo». Oggi quelli che Rodari chiamava «usi della parola» sono le modalità per essere in contatto con chiunque altro: la partita democratica, oggi, si gioca lì.