la Repubblica, 30 dicembre 2014
Da Al Pacino a Fonzie, la conferenza stampa molto pop di Matteo Renzi. «Mi hanno dato della Thatcher e non mi piace, io vengo dai boy scout e alla società ci tengo»; «L’Italia non si cambia con uno schiocco delle dita come Fonzie»; «La parola chiave del 2015 è la stessa del 2014: ritmo»
«Abbiamo cambiato il ritmo dell’Italia» ha scandito con orgoglio, ma il suo «senso dell’urgenza» è velocità o, come si dice a Firenze, è furia? Mai era stata così chiara l’ambiguità – rapidità o fretta?, prontezza o precipitazione? – della leadership di Matteo Renzi che ieri si è spinto sino all’elogio (letterale) «della bulimia».
È, tuttavia, con una interminabile conferenza sul renzismo, con un prolisso racconto su se stesso – «vedo gli sbadigli della terza fila» – che Renzi ha chiuso il suo primo anno che, come ha spiegato Hobsbawm a proposito dei secoli, non coincide con il calendario. È infatti un ‘anno breve’ perché è cominciato nel febbraio di #Enrico stai sereno, ma potrebbe diventare lungo perché finirà solo quando sarà eletto il nuovo capo dello Stato «del quale vedo che ne sapete più di me».
E va detto subito che l’incontro di fine anno del premier con la stampa è per sua natura una cerimonia poco renziana. A punto che «non conviene che io vi dica qui cosa penso dell’Ordine dei giornalisti» ha replicato, con l’aria irridente, al presidente Enzo Iacopino che, con l’aria grave, gli aveva presentato i cahiers de doléances dell’informazione. E poi via contro gli editorialisti, i gufi che «non sono quelli che parlano male di me, ma quelli che parlano male dell’Italia»... E descrive i giornalisti («che non sono diversi dalla classe dirigente di questo paese») ammiccando a Walter Matthau e Jack Lemmon: «Mi piaceva l’odore della rotativa» ha detto, anche se le date della biografia lo smentiscono. Si è insomma divertito ad accennare con impertinente malizia pop alle miserie di una professione «sulla quale ho le mie idee molto tranchantes che però tengo per me». Ma ha toccato il punto più alto della sapienza pop, e in una forma al tempo stesso umile e carismatica, quando si è appropriato del nomignolo Renzie, perché ‘i soprannomi non sono falsi nomi ma altri nomi’ e con l’uso goliardico e sottomesso dei nomignoli sempre l’Italia ha cercato di catturare la sostanza di ogni suo nuovo capo, quel carisma che nel mondo è oggetto di studi scientifici e qui da noi di culto della personalità e di pernacchie altrettanto gregarie.
Di sicuro nell’antologia dello scherno, (da Boy a Renzusconi, da Ebetino a Pittibimbo, da Bomba a ‘Renzie’ ne ho contati 25 in soli dieci mesi), c’è la storia della leadership di Renzi, più ancora che nei 53 libri che gli sono stati dedicati nello stesso 2014. Dunque, non di Gramsci ma di Fonzie ha detto ieri «non sono degno», affascinando così i fans di Briatore senza perdere i gramsciani che ne colgono il sottinteso ironico. E di cosa non è degno? Non dei “Quaderni dal carcere” ma «di portare il giubbotto» che è la consapevolezza dell’impacciato imitatore che non ce l’ha fatta a diventare il bullo fighetto che lo accusano di essere. Insomma gli piace il soprannome che lo inchioda al chiodo, al fighettismo del Fonzie che per sentirsi “cool” dice “hey! “. Il paragone invece con Al Pacino che ‘In Ogni maledetta domenica’ allena la sua squadra come lui sta allenando l’Italia è più banale, meno sapiente, ma immediatamente efficace perché se Fonzie rischiava d’essere esclusivo, Al Pacino è sin troppo inclusivo, una specie di divinità del pop: «Non credo in Dio, credo in Al Pacino» è l’aforisma fulminante dell’attrice Valentina Lodovini. E quel monologo del coatch Al Pacino sul “possiamo farcela” è un classico, padre del “We Can” di Obama (e Veltroni) e figlio del We Can Work It Out dei Beatles. E dunque Al Pacino contro la lentezza che è resistenza allo sviluppo, Al Pacino contro il mondo arcaico della Camusso, Al Pacino contro l’asfissia della Rai di cui «mi occuperò nel 2015 insieme alla scuola e alla cultura», Al Pacino contro i gufi, Al Pacino contro le caverne ideologiche della Pubblica amministrazione che promette di bonificare «nel febbraio 2015» ammiccando un po’ troppo pericolosamente ai fannulloni dell’indimenticabile Brunetta il fantuttone.
Velocità o furia?
Si sa quanto sono subdole le cerimonie che sempre desantificano le feste. È infatti prevalso il rito delle domande automatiche, quasi tutte sulle elezioni del nuovo capo dello Stato. Senza risposta possibile. Domande consapevolmente inutili su Prodi, Draghi, Padoan, su una donna al Quirinale, sul metodo... e risposte consapevolmente evasive: «non partecipo al gioco dell’indovina chi?», «un presidente ce l’abbiamo... «.
«Dopo due ore e mezza chissà quanti si sono addormentati» ha detto, con rassegnazione, alla fine di questa sua lunga ode della brevità, del «mai una giornata persa», del «sono grato ai senatori che lavorano anche di notte», del «noi non ci stanchiamo», che è un luogo comune della retorica italiana, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini, i quali tutti lasciavano la luce sempre accesa.
Anche la contrapposizione della sua «Italia di corsa» che «cambia le cose in dieci mesi» ai «settant’anni dell’Italia» di quegli gli altri «che facevano molte leggi e non cambiavano nulla» rimanda ad altre retoriche italiane che – vendetta del pop – affiorano inaspettatamente, quella del Sorpasso innanzitutto: non il giamaicano Usain Bolt che ha battuto tutti i record, ma il bel ceffo Vittorio Gassman nel film simbolo della generazione delle autostrade, l’Italia che identificò appunto la libertà con la fretta: di crescere, di arricchirsi, di deturpare per costruire, la libertà di spicciarsi, di correre, di fare presto, di arrivare prima degli altri che è sempre meglio superare, sorpassare, lasciare indietro senza regole e senza rispetto.
«Meglio arroganti che disertori» ha detto ancora Renzi. E poi: «”Mamma mia, com’è tarantolato questo ragazzo” penseranno di me, perché la nostra velocità non si misura nei prossimi dodici mesi ma nelle prossime dodici ore». Come si vede, c’è pure il rischio della retorica del lampo futurista, roba buona per i quadri di Balla e per l’incontinenza della lingua più veloce del pensiero, ma meno per la politica, dove la velocità di governare e riformare è fatica di coraggio e prudenza, la forza inesorabile della moderazione.
Vedremo nel 2015 se quella di Renzi è furia, che in Italia è sempre stata la comare della lentezza, o se davvero «il decreto sul fisco è una rivoluzione», «lo jobs act è una pietra miliare», «la riforma costituzionale è un passaggio storico»... Renzi ha usato molti superlativi anche per il comandante del Norman Atlantic, che è stato l’ultimo a lasciare la nave in fiamme. Così siamo ridotti: invece di punire chi commette reati, delitti, misfatti e infrazioni, dobbiamo premiare chi non li commette. Daremo premi a chi mangia con le posate, a chi non sputa per terra, al comandante che non abbandona la nave, a chi è veloce perché rispetta gli impegni e usa bene il poco tempo che ha invece della furia (pop) di “guidare a fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire”.