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 2014  dicembre 30 Martedì calendario

Da Honoré de Balzac a Gustave Flaubert, consigli a uno scrittore dai grandi dell’Ottocento. Poco sport, poche donne, tanta prosa e viva le critiche. «Le zoccole migliori sono le muse»

Dimenticatevi le celebrate pagine di Rainer Maria Rilke sul mestiere di scrivere – più un manuale di vita che di scrittura – dedicate a un giovane poeta. Ora leggete con compiaciuta saggezza, e con il sorriso del navigatissimo homme des lettres, i consigli agli apprendisti scrittori dei maestri della letteratura francese: lettere e saggi radunati da Filippo D’Angelo nel prezioso libro Troppe puttane! Troppo canottaggio! (minimum fax, pp. 208, euro 10).
Da Honoré de Balzac a Gustave Flaubert: già basterebbero le loro dritte per diventare romanzieri (o soccombere). Di Flaubert sono ben noti il Dizionario dei luoghi comuni, il Catalogo delle idee chic e Bouvard e Pécuchet, vero vademecum dello scrittore comme il faut! D’Angelo, però, non si accontenta e ci regala una perla di saggezza: una lettera del vecchio Maestro all’allievo disperato Maupassant, il richiamo a una vigilanza spietata su ogni eventuale cedimento della scrittura: «trasandatezza dello stile», «frasi fatte», «luogo comune», «facilità deplorevole» sono solo alcune delle espressioni con cui allerta chi si sottopone al suo giudizio. Questa esigenza stilistica, più vicina alle preoccupazioni di un poeta che di un narratore, lascerà un marchio indelebile nella pratica della prosa romanzesca.
Flaubert non inventa nulla: è un atavismo della cultura francese, come già aveva intuito Baudelaire e poi Rilke, all’epoca giovane segretario di Rodin. Il solo modo possibile di operare, per quei francesi, è avere pazienza ed esercitare l’umile pratica quotidiana della propria arte, che, tra le altre cose, è anche un infallibile rimedio alla melancolia.
Il 15 agosto 1878, Flaubert scrive a un giovanissimo Guy de Maupassant, depresso dal suo impiego come funzionario, e le cui più grandi consolazioni sembrano essere lo sport e le donne: «Dovete, capite, giovanotto, dovete lavorare di più. Comincio a sospettarvi di essere un po’ fannullone. Troppe puttane! Troppo canottaggio! Troppo esercizio! Sissignore! L’uomo civilizzato non ha tanto bisogno di locomozione quanto lo pretendono lor signori i medici. Siete nato per fare dei versi, fatene! “Tutto il resto è vano”, a cominciare dai vostri piaceri e dalla vostra salute; ficcatevelo nella capoccia. D’altronde alla vostra salute farà bene seguire la vostra vocazione. Questa osservazione è frutto di una filosofia, o meglio, di un’igiene, profonda. Vivete in un inferno di merda, lo so, e vi compatisco dal profondo del cuore. Ma dalle cinque della sera alle dieci del mattino tutto il vostro tempo può essere consacrato alla musa, che è anche la miglior zoccola. Suvvia, mio caro giovanotto, rialzate il capo! A cosa serve rimuginare la propria tristezza? Bisogna porsi faccia a faccia con se stessi da uomini forti; è il mezzo per diventarlo. Un po’ di orgoglio, diamine!».
Maupassant non smise di praticare il canottaggio né di frequentare le prostitute, ma due anni più tardi, subito dopo la morte di Flaubert (si dice che, mentre agonizzava fra terribili sofferenze, abbia esclamato: «Io muoio come un cane, e quella puttana di Madame Bovary vivrà per sempre!»: ecco la morte a cui ambisce ogni vero scrittore), diede le proprie dimissioni dal ministero della Pubblica Istruzione.
Tra i consigli raccolti da D’Angelo nelle opere dei grandi maestri, oltre a Balzac, Baudelaire, Flaubert e Maupassant, troviamo anche Zola, Gide e Proust. Émile Zola elabora una lunga lettera, da Parigi il 18 agosto 1864, a Antony Valabrègue: «Cercate di avere, tornando qui, un poema nella mano sinistra, un romanzo nella destra; il poema sarà rifiutato ovunque, e lo conserverete come una reliquia in fondo al vostro cassetto; il romanzo verrà accettato e, con la morte nel cuore, non lascerete più Parigi. Pazienza se la Musa si arrabbia e se mi porta rancore; in verità vi dico che, al di là della prosa, non c’è salvezza».
André Gide nel suo trattato per giovani scrittori dava un aureo consiglio: «Persuaditi che le lodi fiaccano, invitano a un minor sforzo, mentre l’attacco ben sopportato fortifica. Lascia che sia la tua opera a difendersi e passa oltre. Se essa non regge al colpo, tutto ciò che ti ingegnerai a dire per salvarla non impedirà la sua rovina; preoccupati piuttosto di farne un’altra che resista meglio».
Marcel Proust pubblica nel luglio 1895 un saggio, Contro l’oscurità, che è il suo manifesto e che pone l’accento su una questione letteraria intramontabile: quali sono i limiti che circoscrivono la necessità di chiarezza dell’espressione? Quale il confine che separa l’originalità dalla stramberia, la profondità dall’oscurità, la complessità dalla confusione? Proust difende la limpidezza, cui la sua opera si atterrà con scrupolosa costanza. Infine, una sua perla tratta dai frammenti di Contro Sainte-Beuve: «I bei libri sono scritti in una sorta di lingua straniera. Sotto ogni parola ciascuno di noi mette il proprio significato, o perlomeno la propria immagine, che sono spesso un controsenso. Ma nei bei libri tutti i controsensi in cui cadiamo sono belli».