Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 30 Martedì calendario

E così nella conferenza stampa di fine anno Matteo Renzi ha rivendicato i privilegi degli statali: «Sono stato io ad escluderli dalla riforma del Job Act». Una meravigliosa carezza ai travet, condita dal consueto diluvio di parole e da furberie in eccesso

Le conferenze stampa di fine anno sono sempre un mega spot per il presidente del Consiglio in carica. Figurarsi ieri, quando per la prima volta al centro del set è finito Matteo Renzi. La sorpresa semmai è un’altra: il premier di spot ne ha girati due. E a ben pensarci tre.
Il primo, quello scontatissimo, a se stesso, ai propri clamorosi successi e addirittura alla funzione salvifica che avrebbe per l’intero Paese, capace di dare iniezioni di fiducia come Al Pacino allenatore in «Ogni maledetta domenica» (paragone fatto da Renzi). Il secondo spot è stato una sorpresa, perché non dovuto: il riconoscimento esplicito della leadership dell’opposizione a Silvio Berlusconi. Renzi si è spinto tanto in là da fare infuriare i fedelissimi di Raffaele Fitto, dicendo: «Se qualcuno pensa che esista Forza Italia senza Berlusconi, auguri. È un’ipotesi che non può venire in mente neppure ai teorici del girotondismo più puro». Metti insieme i due spot ed ecco il terzo, che ne è la conseguenza naturale: pubblicità per il patto del Nazareno, che resta la chiave principale con cui aprire la porta del Quirinale al successore di Giorgio Napolitano.
Quasi metà delle domande dei giornalisti ieri riguardava proprio il futuro presidente della Repubblica: più Renzi si sottraeva nelle risposte, più insistevano cercando di prendere alla larga la questione. La vera risposta è arrivata proprio in quell’insistere sul dialogo con Berlusconi, che ha rappresentato sempre fra il 16 e il 30 per cento degli italiani, ed è già stato decisivo nell’elezione di due presidenti della Repubblica: Carlo Azeglio Ciampi nel 1999 e il Giorgio Napolitano bis nel 2013. «È del tutto fisiologico che sieda al tavolo della scelta» anche del prossimo capo dello Stato. Un segnale più che eloquente, anche perchè non è stato accompagnato da analogo messaggio rivolto ad altre opposizioni, Movimento 5 stelle sopra tutti.
C’è un quarto spot girato dal premier ieri, il solo che abbia offerto fra lunghe chiacchiere pure una notizia: Renzi ha rivelato di avere cassato lui stesso dal testo del job act la parità di trattamento fra lavoratori privati e statali, con la possibilità di licenziare anche questi ultimi. È stata una meravigliosa carezza ai travet, condita dal consueto diluvio di parole e da furberie in eccesso. La notizia è che Renzi ha fatto scudo sugli statali, e ha spiegato arrampicandosi un po’ sui muri di avere deciso così perché il tema della licenziabilità degli statali era più adatto al disegno di legge Madia sulla pubblica amministrazione. Siccome al premier qualcuno ha chiesto un giudizio personale sul tema, Renzi di impeto ha risposto che sì, gli statali «fannulloni» dovrebbero essere licenziabili. Poi ha pensato di avere detto troppo, tanto più che quella dichiarazione aveva già fatto «titolo» per i tg, e ha innestato mezza retromarcia: «Non necessariamente dobbiamo prevedere per gli statali quel che abbiamo fatto per il privato, e in ogni caso se ne occuperà il Parlamento a febbraio e marzo». Messaggio più che chiaro: i dipendenti pubblici – fannulloni o meno – possono dormire sonni tranquilli, godersi gli 80 euro (sono la principale platea di beneficiari) e continuare a votare Renzi, che non li tradirà. Strizzatina d’occhio anche a quei sindacati che rappresentano il pubblico impiego (la Cisl in primis, e poi la Uil prima ancora della Cgil).
Tutto il resto della conferenza stampa di fine anno era ovviamente materia per lo spottone numero uno: quello a se stesso. Frasi tranchant, che non consentono replica e sono sempre rigorosamente inverificabili dalla platea che il premier si trova davanti (quando un giornalista straniero ha provato a farlo, Renzi lo ha subito fermato: «Eh no, le controdomande no!»). Così il premier ha gonfiato il petto, sostenendo di avere «mantenuto tutti gli impegni presi nel 2014», anche se poi ha chiarito di avere «avviato», e un po’ glissato sul calendario di promesse che aveva fatto nelle prime settimane a palazzo Chigi. Ne sanno qualcosa le imprese creditrici della pubblica amministrazione, che entro il 30 settembre avrebbero dovuto avere in cassa 60 miliardi e che in quasi il doppio del tempo ne hanno ottenuti giusto la metà. Non contento di avere bucato praticamente tutti gli obiettivi temporali che si era dato, Renzi ha riproposto il jingle per l’anno prossimo: «Ritmo sarà la parola del 2015, dare il senso del cambiamento e dell’urgenza», ha assicurato. E dopo avere dimostrato di non essere riuscito a fare in 10 mesi quel che aveva assicurato di realizzare in dieci giorni, si è pure rivenduto che ora il suo orizzonte realizzativo è «12 ore, non 12 mesi». Beato chi se la beve. Ma lui assicura di avere in mente un «puzzle» con cui ricostruire l’Italia e di essere soddisfatto «per come stanno andando i pezzettini del puzzle».
Citiamo per dovere di cronaca i panegirici sulle riforme, perchè ieri è andata in onda la centesima replica del tema con le stesse parole e frasi ad effetto. Sull’economia, vero tallone di Achille di questo governo che è riuscito a impoverire l’Italia ancora più di quello che era stata impoverita (e sembrava francamente impossibile), Renzi ha sparato fuochi di artificio davvero impensabili. Ha raccontato di avere imposto nel vocabolario dell’Europa la parola «flessibilità» (antica ancora più del vecchio continente), anche se poi non ha prodotto un fico secco. Ha spiegato perfino di paragonarsi alla Germania e non alla Grecia. E di avere ormai battuto perfino Angela Merkel: «Il nostro costo del lavoro è inferiore a quello della Germania». È falso, ma nessuno ha controbattuto.