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 2014  dicembre 29 Lunedì calendario

Ancora nessuna verità sulla Moby Prince. Centoquaranta morti e un processo farsa condotto da un giudice corrotto. La notte dell’incidente i militari Usa caricavano armi nel porto

Ci sono delle fiamme che non sono mai state spente, davanti al porto di Livorno. Ci sono 140 morti che non avranno mai giustizia e i loro parenti nessuna verità. Era il 10 aprile 1991 quando il traghetto Moby Prince lascia le banchine, destinazione Olbia. C’è una foschia irreale, quella sera in mare. Il mare calmo, la rada, lo spazio in entrata e uscita dal porto, trafficata. Non abbiamo mai saputo perché il traghetto prese una rotta diversa da quella che doveva; non sappiamo neanche come l’Avvisatore marittimo, l’equivalente della torre di controllo per gli aerei, se la perse; e non sappiamo come fece a centrare una petroliera, l’Agip Abruzzo, che era ormeggiata. Sappiamo che quella notte la geografia della navigazione in porto venne stravolta perché navi statunitensi avevano appena caricato armi a Camp Darby, allora la più grande base militare Usa d’Europa, destinate al Golfo che, per via di accordi internazionali, non ha bisogno di avvertire dei propri traffici: la base ha uno sbocco diretto nel porto attraverso il canale dei Navicelli e lavorano in completa autonomia e, appunto, senza l’obbligo di avvertire le autorità portuali.
Il Moby Prince si perse, a poche miglia, da tutti i radar. Prese fuoco. Non sappiamo neanche quanto ci misero a morire quei 140 passeggeri, diversi minuti, sicuramente, visto che erano stati tutti radunati nel salone centrale, probabilmente dopo l’incidente. Ma le verità e le poche certezze vennero portate via dalle fiamme. L’incendio scoppiò subito: al momento dell’urto la petroliera, che era piena, scaricò parte del carico sul traghetto. Quando arrivarono i primi soccorsi, due ormeggiatori del porto, la timoneria era fuori uso, la nave girava e aveva i motori in funzione, ma l’unico segno di vita era un mozzo, Alessio Bertrand, che riuscì a scappare, l’unico superstite. Era aggrappato alle ringhiere di poppa. Le comunicazioni, sul canale vhf 16, non hanno mai dato risposte definitive sul perché si salvò solo lui. Nella rocambolesca e approssimativa ricostruzione ebbe l’accortezza di correre più veloce degli altri e nella direzione giusta. Il ragazzo venne salvato, tutti gli altri invece morirono.
È stata la più grande tragedia della marineria italiana, quella del traghetto Moby Prince. Un vecchio traghetto, proprietà della Navarma della famiglia Onorato, ma il processo che si aprì di lì a breve ci raccontò poco: anche perché a condurlo fu un giudice, Germano Lamberti, che qualche anno dopo sarebbe finito agli arresti per una brutta storia di corruzione in atti giudiziari, un fascicolo nel quale finì anche il potentissimo e fascistissimo Altero Matteoli di An.
Niente processo, una ricostruzione sommaria. Molti dubbi. Il giudice cercò durante la durata delle udienze di scagionare l’armatore e la Capitaneria di porto e lasciare le responsabilità al comandante del traghetto, Ugo Chessa, che però non era uno Schettino qualsiasi. Era un comandante vero, uomo di mare e poche distrazioni. Si disse che avrebbe potuto lasciare la guida della nave perché in tv c’era una partita della Juventus. Si disse di tutto e di più senza nessuna prova e perché così faceva comodo a tutti. L’importante era avvalorare l’ipotesi dell’errore umano, giusto per dimenticare e aspettare che la foschia si portasse via anche la memoria. Non è accaduto. Ma non c’è stata nessuna verità, nonostante gli sforzi di un magistrato, Antonio Giaconi, che riaprì l’inchiesta.
Quando il Moby rientrò in porto, insieme a un altro collega, salimmo con una tuta che ci aveva prestato la Labromare, incaricata di bonificare la nave insieme ai vigili del fuoco. C’erano ancora le fiamme e gli stivali in gomma si scioglievano. C’era il salone, ma è difficile spiegare cosa si vedesse. Fu come entrare in qualcosa di molto simile a un forno crematorio. L’odore di carne bruciata, carne umana, ma niente che gli occhi potessero distinguere, perché era passato il fuoco e non aveva lasciato niente. Solo la memoria dell’olfatto può raccontare qualcosa, da vedere non c’era proprio niente e comunque non era distinguibile.
Quello che ci troviamo ancora una volta a discutere sono anni di insabbiamenti. Gli armadi, in questo Paese, devono rimanere chiusi. Li hanno aperti nell’ex Unione sovietica. Lo hanno fatto gli Stati Uniti. In Italia gli armadi della vergogna, quelli pieni di fascicoli dei servizi segreti più o meno deviati, non si toccano. Così non sapremo mai cosa accadde alla stazione di Bologna, Ustica, perché e per volontà di chi non venne liberato Aldo Moro, chi alimentò gli esplosivi per far fuori Falcone e Borsellino.