la Repubblica, 29 dicembre 2014
Una pillola per saperne di più. Inghiottire la conoscenza come un farmaco è solo fantascienza? Forse no. Tra corsi digitali regolati da algoritmi, lezioni senza professori e test in outsourcing l’istruzione è già al centro di una nuova rivoluzione
La campanella di “Roboprof” suona per noi. Se le classi del futuro saranno sempre più online non ci saranno problemi di capienza. Ognuno, da casa sua, potrà affollare le aule virtuali dei docenti migliori. Ma a quel punto, per correggere i 160 mila compiti di chi ha seguito via web le sue lezioni di informatica, il pur leggendario Sebastian Thrun non poteva bastare. Così, per i test a risposta multipla, sono scesi in campo i suoi assistenti algoritmici. Per quelli a risposta aperta la correzione è stata invece datain outsourcingad altri studenti convinti che, complice Wikipedia, la media di tanti occhi amatoriali equivalgano a quelli di un singolo esperto. Questo mix di automazione e intelligenza collettiva è la novità essenziale dei mooc, i “massive open online courses” che da un paio di anni vengono annunciati come il democratico e radioso avvenire dell’apprendimento. Sino a quando lo stesso Thrun, fondatore di Udacity nonché ideatore delle auto senza pilota di Google, ci ha ripensato: «Mi sono reso conto che non istruivamo le persone come avrei voluto. E fornivamo un prodotto scadente» ha dichiarato in un’intervista-abiura a Fast Company. Tuttavia un recente studio di ricercatori del Mit, Harvard e della cinese Tsinghua University assicura che i risultati di chi ha seguito un corso online o tradizionale sono sostanzialmente identici. Ha dunque senso includere, tra i buoni propositi per il nuovo anno, l’iscrizione a uno delle migliaia di corsi gratuiti che pullulano in rete?
Alla domanda su come apprenderemo tra dieci anni il tecnologo Nicholas Negroponte ha risposto a Repubblicacon una delle suggestive iperboli che l’hanno reso famoso: «Magari con una pillola che rilascerà la conoscenza». Quello che il fondatore del Media Lab intendeva dire è che bisogna essere laici rispetto al supporto attraverso il quale il sapere sarà trasmesso. E che ciò che ci sembra nuovo oggi, domani potrà sembrarci vecchissimo. Incluso il dibattito sui mooc. «Così come l’università di Bologna esisteva 800 anni fa – dice Kevin Carey della New America Foundation – sono fiducioso che esisterà anche nei prossimi 800. Ciononostante gli atenei non hanno più il monopolio del sapere e i migliori saranno quelli che si avvantaggeranno delle tecnologie più sofisticate, comprese realtà virtuale e intelligenza artificiale, per connettere studenti ad altri studenti in comunità di apprendimento online». Nel suo imminente libro The End of College, Carey racconta di due corsi che ha seguito via web: introduzione alla filosofia (sulla piattaforma Coursera) e introduzione alla biologia (su edX). Il primo era un’infarinatura che richiedeva un paio di ore di studio alla settimana, il secondo un massacro da almeno 15 ore per 15 settimane («la cosa più difficile mai studiata dai tempi della mia tesi di dottorato»). Entrambi mooc, ma diversissimi. E quando Carey è andato a seguire dal vivo la medesima lezione di biologia ha rimpianto il “tasto pausa” con cui fermare i video e ripeterli sino a quando il concetto non fosse chiaro, il programmino con cui “creare” le proteine e una sedia comoda e un computer dove prendere appunti.
Certo, gli sarebbe piaciuto parlare con il professor Eric Lander dopo la lezione, ma è un privilegio che il Mit riserva solo a una decina dei cento studenti che pagano 5000 dollari per questo accesso extra. Per il resto la versione elettronica ha funzionato bene e lui, che non faceva biologia dal liceo, ha passato l’esame con 87 su 100.
Se c’è una a non esserne sorpresa è Daphne Koller. Due anni fa ha lasciato l’insegnamento a Stanford per fondare Coursera con il collega Andrew Ng. Dieci milioni di iscritti dopo (a uno degli 834 corsi tenuti da 114 università) stenta a comprendere i termini della discussione. «Da subito il timore è stato che minacciassimo o volessimo rimpiazzare l’università tradizionale», ci dice via email da Moun- tain View. «Ma ciò non è avvenuto per un motivo semplice: solo il 15 per cento dei nostri studenti rientrano nell’età del college. Per il resto sono adulti che vogliono migliorare la loro carriera o ampliare i propri orizzonti». Cita uno studio recente della Duke University per cui il 73 per cento delle aziende interpellate «giudica favorevolmente», ai fini di un’assunzione, il completamento di un corso mooc. «Di certo una laurea di quattro anni non basta più per una carriera lunga una vita» e i corsi on demand e a distanza sembrano la soluzione più realistica per gente che cerca di non essere disarcionata da quel rodeo feroce che è diventato il ciclo produttivo.
Vengono in mente i corsi di aggiornamento professionale, anche sul web, introdotti di recente in Italia. Tra le varie differenze, però, c’è il fatto che Coursera interrompe le video-lezioni ogni pochi minuti per assicurarsi che davanti allo schermo ci sia un essere umano che segua e capisca. Se non rispondi bene il filmato non riparte. Niente a che vedere con l’umiliante sagra dei test nostrani, spesso copiati da colleghi zelanti. Sulla necessità di un’istruzione permanente (solo il 5,7 per cento degli italiani partecipa a corsi di formazione contro il quasi 9 europeo) concorda lo psicologo Howard Gardner, celebre per aver demolito la validità scientifica del quoziente intellettivo. «Un biologo che non si aggiorna per tre mesi di fila oggi fatica a recuperare», risponde da Harvard dove è tra i direttori di Project Zero, un centro di ricerca sull’apprendimento: «La quantità di nuove informazioni cresce a un ritmo tale per cui molta della nostra istruzione dovrà essere auto-istruzione».
Se questo è il problema, non è detto che i moocsiano la soluzione. Intanto perché solo uno su dieci arriva in fondo ai corsi. La mancanza della retta, come sa chiunque abbia frequentato una palestra, affossa ogni determinazione. E poi non mancano neppure gli studi, come uno del 2013 su corsi online della San Jose State University, che testimoniano disastri. In uno, solo un quarto degli studenti passava l’esame finale, in un altro metà (entrambi risultati molto più bassi delle medie di chi studia nel campus). È proprio questo fiasco ad aver suggerito il mea culpa di Thrun: «Un mooc può essere una gran cosa per il 5 per cento superiore del corpo studentesco, ma non altrettanto per il restante 95». Servono motivazione e disciplina straordinarie per stare concentrati su una lezione solitaria quando milioni di alternative più divertenti sono a un clic di distanza. Ma torniamo da Gardner: «L’istruzione cambia molto lentamente. Non sarà disgregata nello stesso modo che è accaduto all’industria editoriale o musicale. Più apprendimento passerà attraverso canali digitali come i mooc, ma non sostituiranno le interazioni informali faccia a faccia».
È la paura che tutti vogliono esorcizzare. Compreso Andrew Ng, quando ero andato a trovarlo nella sede di Coursera, non lontana da Facebook: «Per quale motivo ricorda i suoi docenti? Certo non per come correggevano i compiti, ma per l’interazione, i consigli, le chiacchiere. Liberandoli dalla correzione avranno più tempo per quello». Però di quanti insegnanti si potrà fare a meno se lui da solo, con l’aiuto degli algoritmi, può servire 100 mila studenti? L’università di Roboprof potrebbe diventare un deserto con poche star e un esercito di software cultori della materia.