la Repubblica, 29 dicembre 2014
Dopo il Boeing fantasma Mh370 e quello precipitato in Ucraina, ora anche l’Airbus A320. Troppe domande senza risposta sulla maledizione degli aerei malesi. Si moltiplicano le teorie del complotto
Due tragedie dei cieli in pochi mesi, a marzo e a luglio. E ora un altro mistero che con quei precedenti ha un elemento in comune: la Malesia. Ieri sera erano ancora senza esito le ricerche del volo AirAsia QZ8501, un Airbus A320 con 162 persone a bordo. Aveva perso i contatti coi controllori dei cieli mentre sorvolava la costa del Borneo. AirAsia è una delle compagnie low-cost di maggior successo nel sudest asiatico.
Il suo fondatore è un imprenditore malese. Di qui la tentazione irresistibile ma pericolosa: fare dei collegamenti, sia pure ipotetici, con i due terribili precedenti di marzo e luglio. Sono davvero nove mesi da incubo per l’aviazione civile in quell’area del mondo così dinamica e popolosa. A marzo un Boeing 777 della Malaysian Airlines, decollato dalla capitale Kuala Lumpur alla volta di Pechino, svaniva nel nulla con 239 persone a bordo. Tuttora il caso di quel volo Mh370 resta uno dei misteri insoluti nella storia dell’aviazione moderna. Nonostante le ricerche che hanno coinvolto vari paesi, dall’Australia all’India, di quel jet non è stato finora ritrovato neppure un rottame. Poi a luglio ci fu un’altra strage dei cieli, 298 morti, quando il volo Malaysian Mh17 precipitò mentre era sui cieli dell’Ucraina.
Le autorità olandesi (il Boeing 777 era partito da Amsterdam per raggiungere Kuala Lumpur) in seguito hanno stabilito che quello non fu affatto un “incidente”: il jet venne abbattuto. Con ogni probabilità da un missile. Le prove definitive sulla colpevolezza non sono state raccolte, perché nei primi giorni dopo l’abbattimento i ribelli ucraini appoggiati da Mosca fecero di tutto per trafugare, manipolare, spostare i rottami dell’aereo. Il governo olandese, non proprio un “falco” in politica estera per sua tradizione, da allora divenne uno dei sostenitori di sanzioni severe contro Vladimir Putin.
Tentare di unire i due precedenti, con la scomparsa del volo AirAsia sui cieli del Borneo, è azzardato e arbitrario, ancorché talvolta irresistibile. La logica umana è refrattaria all’idea del puro caso, cerca spiegazioni razionali, vuole vedere indizi e collegamenti, che diano un senso alle coincidenze più tragiche. Il vero mistero rimane comunque quello del mese di marzo. In quel caso il mancato ritrovamento del Boeing 777 lascia aperte tutte le supposizioni. Tra cui venne avanzata la pista degli islamisti: terroristi capaci di introdursi nella cabina di pilotaggio; o in altre versioni uno degli stessi piloti che si sarebbe convertito alla jihad e pronto al suicidio. Tuttavia anche quelle piste “politico-religiose” hanno trovato le contro- indicazioni. Per esempio la mancanza di una rivendicazione, che toglie “utilità” all’eventuale attentato. I dietrologi a oltranza hanno allora ripiegato sulla pista di un messaggio mirato, una strage ad hoc, di cui solo alcuni destinatari hanno potuto decifrare il significato senza che questo venisse reso noto al pubblico.
A eccitare la curiosità, o l’allarme, vi è il particolare status geopolitico della Malesia e dell’Indonesia. Nuovi dragoni del sudest asiatico, protagonisti di una modernizzazione impetuosa, di uno sviluppo economico travolgente, e al tempo stesso con una forte impronta islamica-moderata. L’Indonesia in particolare, è stata additata perfino da Barack Obama come un modello di transizione democratica e di Stato laico per una nazione a maggioranza musulmana. Forse il modello più saldo ultimamente, da quando la laicità della Turchia sembra essersi un po’ appannata. Qualcuno può avere interesse a destabilizzare l’ultima area di convivenza pacifica tra musulmani e minoranze che appartengono ad altre religioni? L’Indonesia, quarta nazione più popolosa del mondo, è un solido alleato degli Stati Uniti, anche questa una caratteristica non scontata per un paese a maggioranza islamica.
Ad alimentare le teorie del complotto, almeno fino a ieri sera, c’erano tante incongruità sul volo AirAsia QZ8501 decollato da Surabaya (seconda città indonesiana, sull’isola di Giava) e diretto a Singapore. L’Airbus stava attraversando un’area meteorologicamente turbolenta, con forti temporali monsonici, e per questo il pilota aveva chiesto l’autorizzazione per un cambio di rotta. Ma tempeste di quell’intensità non sono tali – secondo gli esperti di aeronautica – da mettere in pericolo un jet così mo- derno. Almeno altri 6 aerei si trovavano nelle vicinanze e su rotte simili, quando l’Airbus ha perso i contatti.
In alternativa alle dietrologie politicostrategiche c’è il tema concreto della sicurezza dei cieli. L’Indonesia ha una reputazione fragile, molte sue compagnie aeree figurano nelle “liste nere” delle autorità europee. Il boom delle linee low-cost, in quelle ed altre aree del mondo, è stato associato con risparmi sulla sicurezza e rischi accresciuti per i passeggeri. Anche se, nello specifico, AirAsia ha invece una pagella di tutto rispetto per le verifiche sulla sicurezza dei suoi apparecchi. Va anche ricordato, in ore di angoscia per la sorte di un traghetto nelle nostre acque, che gli incidenti aerei non sono affatto frequenti. Per un settore che muove 10 milioni di passeggeri al giorno, 365 giorni all’anno, la sicurezza è incredibilmente elevata; assai superiore a quella di pochi decenni fa. Questo non può certo consolare, quando le tragedie avvengono.