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 2014  dicembre 29 Lunedì calendario

Come si spiega che la candidatura di Prodi al Quirinale avanzata da Sel per mettere in difficoltà Renzi si è trasformata in un punto di convergenza fra lui e Berlusconi?

Secondo il premier Renzi, è grave che qualcuno voglia «gettare il nome di Prodi nel tritacarne dei retroscena» giornalistici. Ma la storia non è proprio in questi termini. Romano Prodi è uno dei più autorevoli candidati alla presidenza della Repubblica ed è normale che si parli di lui. Soprattutto quando attorno all’ex presidente del Consiglio si sta giocando una partita politica complessa e dall’esito ancora imprevedibile.
Certo, manca un mese all’inizio delle votazioni nell’aula di Montecitorio. Di qui ad allora vivremo di mezze notizie, indiscrezioni e supposizioni, molte delle quali infondate o incomplete. Eppure dove c’è molto fumo spesso c’è anche un po’ d’arrosto. In ogni caso è poco plausibile che nessuno stia tessendo in queste settimane i fili di una strategia, che non si stia creando una griglia per evitare il Vietnam parlamentare di fine gennaio. In fondo le voci su Prodi sono nate quando il premier lo ha ricevuto a Palazzo Chigi, un paio di settimane fa. E si sono rafforzate quando Berlusconi, l’avversario di sempre, ha lasciato intendere di non avere più alcuna pregiudiziale contro il suo antico nemico (l’uomo che lo ha battuto due volte nelle urne). Così ha preso forma l’ipotesi di Prodi al Quirinale con i voti, nientemeno, del «patto del Nazareno», cioè lo schema politico più indigesto per lui.
Ma come stanno in realtà le cose? Non come sembrano. Al momento l’unico gruppo ad avere avanzato in modo pressoché ufficiale la candidatura prodiana è il Sel per bocca di Vendola. Con l’idea di mettere in difficoltà Renzi, non certo di favorire la convergenza fra lui e Forza Italia. Sono emerse poi altre voci. Bersani, memore dei 101 franchi tiratori del 2013, ha detto più volte, a nome di una frazione ragguardevole del Pd, che «occorre ricominciare da Prodi», ossia che un accordo all’interno del partito non può ignorare la ferita di allora (garbata allusione al fatto che gli amici di Renzi sono fra i maggiori indiziati della fronda). A seguire si sono dichiarati a favore di Prodi alcuni intransigenti di Forza Italia, ad esempio Minzolini e la Santanché. Anche qui non si è trattato di togliere le castagne dal fuoco a Renzi, ma al contrario di buttargli fra le gambe il nome più scomodo e meno malleabile.
Come si spiega allora che una candidatura avanzata da personaggi e ambienti non certo amici del presidente del Consiglio si trasformi in un punto di convergenza fra lui e Berlusconi? Per capirlo occorre guardare la vicenda da un’altra angolatura. Il problema di Renzi è che egli non può mettere veti ad alcun candidato vero o presunto che nasca dentro i confini del Pd, tanto meno al fondatore dell’Ulivo. La sua speranza di impedire la guerra civile all’interno dei gruppi parlamentari del centrosinistra passa proprio di qui: dalla capacità di non tagliare la strada a nessuno, ma di far scaturire l’accordo vincente al momento opportuno intorno al nome più condiviso.
Tuttavia, non basta dire che Renzi non può mettere veti: la questione è che non può nemmeno subirli. Se il premier accettasse, per ipotesi, una bocciatura secca e definitiva di Berlusconi su Prodi, tutta l’architettura del «patto» salterebbe e l’intera strategia per la successione di Napolitano rischierebbe di essere vanificata. Quindi Berlusconi, da bravo partner, ha tenuto un profilo molto basso e ha evitato di porre qualsiasi veto. Finché ieri ha affidato a un collaboratore il compito di dire un mezzo «no», ma abbastanza flebile da non essere troppo compromettente.
Non sarebbe la prima volta che per l’eterogenesi dei fini, un passo dopo l’altro, ci si ritrova ad eleggere la figura meno gradita, in questo caso Prodi. Ma è più probabile un altro sbocco. Se Renzi e Berlusconi non vogliono Prodi al Quirinale, e se hanno giocato fino qui una mano tattica di una partita ancora molto lunga, arriverà il giorno in cui qualcuno dovrà pur scoprire le carte. Quel giorno potrebbe entrare in crisi il «patto» oppure il Pd. In entrambi i casi, il premier avrebbe di che preoccuparsi.