Corriere della Sera, 29 dicembre 2014
Israele vuole togliere il servizio di leva obbligatorio in favore di «un esercito di professionisti su base volontaria». Yuval Benziman, studioso dei comportamenti sociali: «La mia conclusione è che bisogna pianificare uno scenario simile a quello di altri eserciti occidentali. Anche se nel nostro caso i cambiamenti saranno diversi, è difficile che si possano evitare le soluzioni adottate nella maggioranza dei Paesi occidentali…»
Si sono trovati tre mesi fa in un grattacielo di Tel Aviv, vicino al ministero della Difesa. Il pomeriggio d’un settembre nero: le ferite di Gaza, le accuse di crimini di guerra, i giornali che in quei giorni rilanciavano l’inaudita obiezione di coscienza d’un gruppo d’intelligence militare, l’Unità 8200… Il tema della riunione era già un piano di battaglia: «Il passaggio dal servizio militare obbligatorio all’esercito di professionisti su base volontaria». Il dibattito, fuoco incrociato fra generali, sociologi, psicologi. Con un colpo secco sparato a Tsahal, alla retorica dell’armata di popolo e del kibbutz in trincea, al cuore stesso dello Stato d’Israele: «La mia conclusione – ha detto a un certo punto Yuval Benziman, studioso dei comportamenti sociali, presentando una ricerca commissionata dagli stati maggiori – è che bisogna pianificare uno scenario simile a quello di altri eserciti occidentali. Anche se nel nostro caso i cambiamenti saranno diversi, è difficile che si possano evitare le soluzioni adottate nella maggioranza dei Paesi occidentali…». Quali soluzioni? «Ci sono segnali – è intervenuto il colonnello Roni Tamir, mentre la platea rumoreggiava – che indicano la possibilità d’un reale cambiamento del modello di difesa israeliano. E noi ci dobbiamo preparare».
Levate la leva. Diceva Ariel Sharon che non ci sono più i soldati d’una volta e forse è anche per questo che, per la prima volta, i soldati ci stanno pensando: meno siamo, meglio stiamo. Basta con la naja obbligatoria per tutti, avanti coi militari di mestiere. Il rapporto Benziman non è classificato, ma qualcuno l’ha fatto arrivare al quotidiano Haaretz e ora la discussione diventa pubblica: non c’è fretta perché «la tendenza di cancellare il servizio obbligatorio in molti Paesi ha richiesto decenni», ma bisogna riflettere sul fatto che ormai «solo sei Stati europei lo prevedono» e che «per lo più riguarda nazioni dell’Asia o dell’Africa». Cade un tabù. Tsahal oggi può contare su quasi 200 mila effettivi. Ma in ognuna delle quindici grandi guerre che ha combattuto nei suoi 66 anni di vita, ha dimostrato di poterne mobilitare tre volte tanti. A parte i palestinesi, qualche cristiano e quasi tutti gli ebrei ultraortodossi, ai tre anni di servizio obbligatorio per gli uomini e ai due anni per le donne non si scampa: beduini, drusi, etiopi, russi, vegani, omosessuali, transgender… Novanta euro al mese di paga, si resta nella riserva fino a 51 anni. Costruendoci carriere politiche o imboscandosi da refusniks all’estero, comunque sapendo che l’Id (identity) d’ogni israeliano passa per l’Idf (Israel Defense Forces): la più grande azienda del Paese che da sola vale 7 punti di Pil. «Mi chiedono spesso quanto ti cambi la vita essere una soldatessa per sempre – risponde Shani Boianjiu, giovane soldatessa che ha messo in un romanzo i suoi check-point fra nonnismo e sesso facile, commilitoni suicidi e droga —. Io non lo so. Vengo dal confine col Libano, al liceo m’interrogavano sui missili Abm e i lanciarazzi Rpg, ho sempre vissuto come se fossi un militare. Mi sento così da quando sono nata».
Cercate la pace ma siate pronti a difendervi, raccomandava Ben Gurion. La società israeliana però sta cambiando pelle, osserva il rapporto Benziman: chiede più welfare e più istruzione, snobba il ruolo sociale dell’Idf, sente poco lo spirito di servizio, tollera meno che la naja ritardi gli studi o la carriera. Senza contare che le nuove campagne, come s’è dimostrato in Libano o a Gaza, richiedono gente più preparata all’uso d’armi sofisticate, che sappia il daffare quando c’è di mezzo la popolazione civile, esperta anche nel peacekeeping o ad affrontare il terrorismo globale. «Prima d’arrivare a un esercito di professionisti – dice cauto il rapporto – si possono trovare anche altre soluzioni, dalla leva più breve a reclutamenti più selettivi…».
Ma inutile girarci intorno: la guerra è una cosa troppo seria, per non lasciarla fare ai militari.