Corriere della Sera, 29 dicembre 2014
Nell’Adriatico in tempesta nasce il detto «in bocca al lupo». All’origine dell’espressione ci sarebbe la lavagna su cui i capitani che arrivavano a Venezia registravano il loro arrivo e quello degli uomini e merci portati a casa: lavagna che si chiamava, appunto, bocca di lupo. All’augurio, quindi, non si dovrebbe mai rispondere «crepi» ma, come si usava un tempo, «che il Dio del mare ti ascolti»
Avevo vent’anni la prima volta che ho avuto davvero paura del mare. Tornavamo da Pirano in Istria a Grado, su una barca a vela da 30 piedi, quando ci colse un fortunale. Il mare che fino a pochi attimi prima era un’incantevole distesa blu si fece cupo, e cavalloni enormi cominciarono a scuotere su e giù la nostra barca come fosse un turacciolo.
All’inizio ci divertimmo, giocando a fare i capitani coraggiosi o gli eroi di un romanzo di Conrad. Correvamo a ridurre la velatura, seguendo gli ordini sempre più nervosi del nostro skipper. Poi le nuvole scure e la pioggia calarono come un sipario nero. La sensazione del pericolo mi venne dalla paura che colsi negli occhi dello skipper. Era lo sguardo di chi ha esaurito ogni risorsa, dato fondo a ogni conoscenza utile. Capii che non potevamo far nulla per domare il pericolo, solo rimetterci al destino. La distanza tra Pirano e Grado è di poco più di 12 miglia nautiche. Niente, a guardare sulla mappa. Ma in quella tempesta era come trovarsi al centro del nulla. Dopo ore di lotta vedemmo la costa. Le onde erano ancora così alte che a tratti lasciavano scoperto il fondo del mare. Un errore, un colpo di sfortuna, e ci saremmo schiantati sui fondali, saremmo morti in quell’acqua bassa. Ma riuscimmo a raggiungere sani e salvi il porto.
Il giorno dopo, nella vicina basilica di Aquileia, andai a vedere il mosaico che illustra il primo scampato naufragio della letteratura mondiale. Raffigura il profeta Giona: quando la nave che dovrebbe portarlo a Tarsis viene aggredita da una tempesta, Giona rivela ai marinai che è l’ira di Dio nei suoi confronti, per aver disubbidito al suo volere. Allora i marinai, per salvarsi, lo gettano in mare, dove viene inghiottito da un enorme pesce. Il mosaico è splendido. Raffigura con vivacità la variegata fauna marina dell’Adriatico. Ma quei pesci dalle forme e dai colori allegri, a chi è scampato al mare ispirano solo paura.
Sono tornato altre volte in mare, ma non ho più potuto farlo con la spensieratezza di un tempo. Come si legge in un testo del ‘700, «l’Adriatico mare suole abbondare di tempeste, per cagione della sua stretta estensione». Un veneziano, che coi suoi racconti di navigazione in quel mare contribuì non poco ad allontanarmi dallo sport della vela, mi raccontò che all’origine dell’espressione «in bocca al lupo» ci sarebbe la lavagna su cui i capitani che arrivavano a Venezia registravano il loro arrivo e quello degli uomini e merci portati a casa: lavagna che si chiamava, appunto, bocca di lupo. All’augurio, quindi, non si dovrebbe mai rispondere «crepi» ma, come si usava un tempo, «che il Dio del mare ti ascolti». Non so se l’aneddoto sia attendibile. So che nel cuore di una tempesta ci si sente assolutamente persi, e insignificanti, e bisognosi dell’aiuto dall’alto. SOS, Save Our Souls, «salvate le nostre anime!» è il grido di soccorso che si lancia in mare.
Omero, Virgilio, Shakespeare hanno fatto delle tempeste di mare una perfetta metafora dell’impotenza umana di fronte a forze superiori, siano esse divine o naturali. La tecnologia e la scienza moderne sono lontane dal darci sicurezza. I telefoni cellulari ci consentono, in compenso, di assistere in diretta alle tragedie del mare, com’è già successo per la Costa Concordia. E sono davvero terribili, quelle voci che parlano delle due più grandi paure dei marinai: la tempesta e il fuoco. Le voci di quei superstiti che raccontano di scarpe che si sciolgono al contatto con il metallo arroventato della nave riportano in mente i diari dei marinai inglesi e americani che dal 1941 al 1945 percorsero la rotta artica per rifornire l’Unione Sovietica assediata dai nazisti, diari che registravano con sgomento le fiamme e il boato lontano che annunciavano l’affondamento di una delle loro navi e l’orribile morte dei loro compagni, costretti a scegliere tra la morte per fuoco e quella per assideramento. E prima ancora, più indietro nel tempo, il terrore dei marinai dell’Invincibile Armata spagnola nella notte del 27 luglio 1588, quando Sir Francis Drake lanciò contro di loro i brulotti incendiari, per arrivare alle recenti tragedie mediterranee della Moby Prince e della petroliera Haven.
Servon o anche a noi, queste richieste di soccorso che ricordano il passato. Servono a rammentarci che in certi momenti la nostra arroganza di uomini tecnologici dovrebbe cedere il passo allo stupore, al timore verso forze più grandi, che non possiamo controllare. Un tempo chi si metteva per mare si affidava alla protezione di Dio. Oggi solchiamo gli oceani a bordo di navi enormi, dotate di tutti i comfort, con più passeggeri degli abitanti di una piccola città. Eppure basta un errore umano, una carenza tecnica o uno scarto imprevisto della Natura, e un viaggio può trasformarsi in tragedia. Il mare buio e flagellato dalle onde al largo delle coste albanesi dovrebbe ricordarci altre tragedie avvenute su quei mari che a torto vediamo come grandi autostrade, come semplici distanze tra un luogo di partenza e un altro luogo da raggiungere.
Qualche anno fa il National Geographic pubblicò sensazionali foto dallo spazio. Un software aveva «ripulito» le immagini riprese da un satellite, in modo da mostrare i fondali marini come se l’acqua fosse perfettamente trasparente. Quelle foto mostravano con impressionante chiarezza come l’acqua nasconda vulcani e abissi e catene montuose, paesaggi inquietanti creati da forze naturali superiori a ogni nostra immaginazione. Se nell’antichità gli uomini avessero potuto avere la percezione data da quelle foto, forse non si sarebbero mai messi per mare.
O forse sì, l’avrebbero fatto lo stesso: sulle mappe oceaniche di un tempo apparivano leviatani, mostri marini e altri incubi ancestrali; ciò nonostante l’uomo ha sempre affrontato i pericoli del mare, in nome del commercio e della scienza, migliorando i propri mezzi tecnici e ampliando il suo raggio d’azione. L’importante è riuscire a mantenere il doveroso rispetto per il mare e i suoi pericoli. E, rinunciando per un attimo al nostro orgoglio tecnologico, soffermarsi, attraverso la poesia di T. S. Eliot, sulle antiche parole di un marinaio fenicio annegato: «O tu che giri la ruota e guardi sopravvento,/Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te».