L’Europeo, 4 gennaio 1948
Otto minuti per firmare la costituzione
Sabato 27 dicembre il presidente Enrico De Nicola ha firmato tré esemplari della Costituzione nella saletta della biblioteca privata in Palazzo Giustiniani: otto minuti precisi, dalle 17.05 alle 17.13, presenti un centinaio di persone. Non tutti e cento hanno assistito all’atto formale, poiché la maggior parte era rimasta trattenuta in una sala vicina, chiamata degli Specchi, che comunica attraverso una scaletta con la biblioteca privata. Nella biblioteca erano stati ammessi soltanto i ministri, un gruppo di giornalisti e alcuni fotografi. I giornalisti erano stati fatti salire in una breve galleria che occupa due lati della saletta; i fotografi restarono in basso, sulla sinistra, i ministri furono fatti entrare dalla porta di fondo e si schierarono lungo il lato destro. Primo a entrare, alle 17.04, è stato Luigi Einaudi, vicepresidente anziano del Consiglio, seguito dai due nuovi vicepresidenti, Randolfo Pacciardi e Giuseppe Saragat. Tutti e tré si sono presentati vestiti molto correttamente in blu marino: Einaudi aveva una cravatta nera, gli altri due cravatte fantasia ma a fondo scuro e con disegni classici. Soltanto Saragat, che è freddoloso, mostrava un orlo di pullover grigio chiaro tra il nodo della cravatta e i risvolti del bavero. Gli altri ministri seguivano in frotta e si disposero secondo un approssimativo ordine di precedenza, a partire dal tavolo del presidente verso la porta d’ingresso. Il ministro dei Lavori pubblici, Umberto lupini, ruppe invece la consegna della correttezza andandosi a collocare a sinistra di Einaudi, come primo cioè, occupando un posto che non gli spettava. Per di più, essendo unico ministro in abito color nocciola e in scarpe giallo mandarino, la sua presenza si notava maggiormente e ad aggravarla contribuiva la sua loquacità durante il tempo dell’attesa. Mario Scelba aveva la cravatta rosso vino, Cipriano Facchinetti era il solo con cravatta a fiocchetto; Umberto Terracini, che entrò al seguito di De Nicola con Aloide De Gasperi, il solo che portasse all’occhiello un distintivo di un partito. De Gasperi era in giacchetta nera e pantaloni a righe (e, come lui, soltanto Cesare Merzagora era arrivato a una così elegante correttezza), mentre il presidente De Nicola in doppio petto blu aveva una cravatta di raso nero.
Entrando nella saletta dalla porta di destra, De Nicola sorrise; con un gesto cortese fermò gli applausi che venivano dalla sala degli Specchi e si sedette al tavolo. Passando per entrare, aveva teso la mano, un po’ distrattamente, al ministro Tupini che era il più vicino e il più irrequieto. Seduto, disse: «Le luci, le luci», con accento di rammarico perché i fotografi si erano avventati a lampeggiare dietro i propri obbiettivi e dall’alto della nostra galleria i proiettori dei cinematografari si erano messi a roteare sulla saletta. Ma sospirò pazientemente, prese una penna da un calamaio alla destra del tavolo e firmò la prima copia della Costituzione della Repubblica, sul lato destro dell’ultima pagina. Erano le 17.05. Passò con gentilezza la copia a Terracini che la firmò a sinistra e che a sua volta la passò a De Gasperi. De Gasperi ha firmato le tré copie premettendo il cognome al nome proprio, “De Gasperi Aloide”, come si usa nel Settentrione d’Italia. De Nicola ha firmato apponendo il suo nome sempre un poco più in basso, dal primo al terzo degli esemplari; e sul secondo la sua firma fu messa di traverso, cioè in salita verso destra. La firma di ogni copia ha richiesto due minuti: l’ultima firma, quella di De Gasperi sulla terza copia, ha fatto ritardare di qualche istante la conclusione della cerimonia perché De Gasperi si è accorto che il pennino grattava la carta. Ha cambiato la penna e a ciò si deve se tutte e quattro le penne collocate sui calamai dal cerimoniere della presidenza sono state adoperate; una da De Nicola, una da Terracini, due da De Gasperi. A cerimonia terminata, le quattro penne sono scomparse. Il vicepresidente Saragat si è impadronito di quella che era servita a De Nicola; il ministro della Pubblica istruzione, Guido Gonella, ha preso la penna usata da Terracini; Pacciardi quella di De Gasperi. Come accade usualmente in queste circostanze tra gli autorevoli cercatori di cimeli si è insinuato un amatore meno autorevole, il giornalista Augusto Mastrangeli del quotidiano La Repubblica d’Italia (quotidiano del pomeriggio che ebbe breve vita, ndr), che si è preso destramente la quarta penna, quella servita per una volta sola al presidente De Gasperi. Le quattro penne, in ogni modo, sono uguali e del tipo ordinario che fornisce il provveditorato dello Stato; cannuccia di legno affusolata verniciata di nero, e pennino d’acciaio a forma di lancetta, marca Presbitero – Milano – 515 – EF. La nostra visita alla biblioteca, intanto, consentiva la scoperta dei testi che il presidente tiene sottomano per la quotidiana sua consultazione. Dietro al suo tavolo si alza uno scaffale contenente una bella collezione della Gazzetta ufficiale del Regno, in mezza pergamena, due tasselli sul dorso, rilegatura da amatore per le accurate dorature. Nello scaffale di sinistra ci sono invece raccolte delle leggi dell’impero, che è l’Impero austroungarico, dal 1880 al 1907. Altre opere giuridiche completano gli scaffali. Il tavolo sul quale si è firmata la Costituzione era coperto di un velluto cremisino e vi figurava al centro una cartella di cuoio sbalzato e dorato. I due calamai erano di bronzo dorato. In via Dogana Vecchia, di fronte al portone, era schierata una compagnia di granatieri: quando arrivarono i valletti della Camera in feluca piumata, collana d’oro e spadino, l’ufficiale comandante li scambiò per ammiragli o diplomatici e diede ordine alla truppa di presentare le armi. Per le scale, il servizio d’onore era affidato agli ex corazzieri che dello squadrone guardie del rè hanno conservato la sciabola con l’elsa istoriata e i guanti bianchi alla moschettiera, alti per tutto l’avambraccio. I valletti nei saloni erano in livrea rosso aragosta, calzoncini di raso, polpe coperte da calze bianche. I commessi degli uffici erano invece tutti in nero, abiti austeri da prelati del Settecento. Ci guardavano con una certa diffidenza, abituati come erano al più rigido cerimoniale della corte, dal cui servizio provengono tutti. Ci congedammo alle cinque e mezzo, rinnovando gli auguri al padrone di casa per un buon anno.