Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

«Così infierivo sui prigionieri di Abu Ghraib». Erick Fair, ex soldato, ex agente, ex torturatore esperto di interrogatori, ora insegnante, spiega perché non sempre gli Usa sono un Paese di cui si può andare fieri

Nell’ultimo semestre ho insegnato scrittura creativa alla Lehigh University. In vita mia sono stato un soldato, un agente di polizia e un esperto di interrogatori, perciò ascoltare gli studenti che mi chiamano «professore», assegnare compiti a casa rappresenta un notevole cambiamento di marcia per me.
Eppure l’argomento del corso, «Scrivere la guerra», mi impedisce di allontanarmi troppo dai ricordi che mi ossessionano da un decennio. Sono grato all’università per avermi dato l’occasione di tenere questo corso. La disponibilità della Lehigh a far salire un veterano militare sulla cattedra dei professori è proprio quello che il Paese deve fare per elaborare collettivamente l’eredità degli ultimi tredici anni di guerra. Ma parlare di guerra a una classe di studenti mi ricorda ogni giorno che io sono tutto fuorché un professore universitario.
Io conducevo gli interrogatori ad Abu Ghraib. Io ho torturato.
Abu Ghraib domina ogni minuto di ogni giornata, per me. All’inizio del 2004, ad Abu Ghraib i muratori si davano da fare per coprire i murales di Saddam Hussein con uno strato di pittura giallastra. Per sbaglio mi appoggiai a una di questa pareti. Indosso ancora il giubbotto di pile nero con la macchia scolorita. Mi sembra d’avere ancora nelle narici l’odore della vernice. Sento ancora i suoni. Vedo ancora gli uomini che chiamavamo detenuti.
Il mese scorso i miei studenti hanno letto Quanto pesano i fantasmi, di Tim O’Brien. Durante la lezione ho parlato del peso che resta addosso ai reduci dall’Iraq. Ho portato una scatola di sigari piena di ciondoli e souvenir che avevo comprato dai venditori ambulanti iracheni all’aeroporto internazionale di Bagdad. Ho portato anche il giubbotto nero di pile.
Quando ho chiesto agli studenti di ricordare cosa avessero pensato il giorno, nel 2004, in cui uscirono fuori le fotografie di Abu Ghraib rivelando le immagini delle violenze ai danni dei detenuti, loro mi hanno guardato con la tipica espressione dello studente troppo imbarazzato ad ammettere che non ne sapeva niente, o non aveva al proposito pensieri di particolare interesse. Quasi tutti hanno distolto lo sguardo, qualcuno, sbrigativo, mi ha fatto un cenno di assenso, altri hanno optato per la sincerità e si sono limitati a sbadigliare.
Per la prima volta m’imbattevo in una generazione che non considera la pubblicazione delle fotografie di Abu Ghraib un tornante decisivo della loro vita. Non gliene faccio una colpa. Gli studenti frequentavano le elementari all’epoca. Ai loro occhi, sono cose da libri di storia. È roba di cui parlano i loro genitori. È una semplice risposta a un compito in classe.
Mentre guardavo le loro facce assenti mi sono reso conto che provavo una sensazione di sollievo molto intensa. Abu Ghraib svanirà e le mie trasgressioni saranno dimenticate. Ma solo se io lo consentirò.
Ho pubblicato articoli sui giornali per descrivere dettagliatamente gli abusi e le violenze che infliggevamo ai detenuti iracheni. Sono stato intervistato da radio e televisioni. Ho parlato con gruppi difensori dei diritti umani come Amnesty International, e ho confessato ogni cosa a un avvocato del dipartimento della Giustizia e a due agenti del Comando di indagini penali dell’esercito. Ho detto tutto quello che c’è da dire. A questo punto, la cosa migliore che io possa fare, forse sarebbe quella di gettarmi tutto quanto dietro le spalle.
E infatti quel giorno, di fronte ai miei studenti, ero tentato di lasciare che l’apatia annebbiasse le sconvenienti verità della storia. Non ero più costretto ad assumere il vecchio ruolo, di quello che conduceva gli interrogatori ad Abu Ghraib. Ero un professore alla Lehigh University. Potevo dare i voti alle tesine degli studenti, dire cose brillanti durante le lezioni. Mio figlio poteva salire sullo scuolabus e parlare coi suoi amici di quello che faceva suo padre per guadagnarsi da vivere. Ero una persona di cui si può andare fieri.
Però, io non sono una persona di cui si può andare fieri. Io conducevo gli interrogatori ad Abu Ghraib. Io ho torturato.
Alla fine ho esortato gli studenti ad andare a ripescare le foto di Abu Ghraib, a raccontarmi le loro reazioni scrivendo temi creativi. Abbiamo passato la lezione a parlare di quel che era successo ad Abu Ghraib. Ho anche letto ai ragazzi alcune cose che ho scritto. Loro continuano a chiamarmi «professore», ma credo che ora mi vedano sotto una luce diversa.
Oggi il Senato degli Stati Uniti ha pubblicato il rapporto sulle torture. Molte persone sono rimaste sorprese dal contenuto: casi di waterboarding – di annegamenti simulati – molto più frequenti rispetto a quanto si pensasse prima, privazione del sonno per periodi lunghi fino a una settimana, e un’orribile e umiliante procedura chiamata «reidratazione rettale». Io non sono affatto sorpreso dal rapporto del Senato. Vi assicuro che c’è di più: sono ancora molti gli omissis.
La maggioranza degli americani non ha letto il rapporto. La maggioranza non lo leggerà mai. Ma quelle pagine resteranno per sempre lì a ricordarci che Paese siamo stati.
In qualche aula universitaria del futuro, un professore chiederà ai suoi studenti di informarsi sulle cose che fece questo Paese nei primi anni del XXI secolo. Assegnerà da studiare estratti del rapporto del Senato sulle torture. Ci saranno sguardi assenti e sbadigli indifferenti. Ci saranno tesine e compiti a casa. Gli studenti scopriranno che non sempre questo è un Paese di cui si può andare fieri.
(©2014 New York Times News Service
traduzione di Fabio Galimberti)