Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

Coop, «è ora di cambiare le nostre regole. Perché dopo il caso romano ci scopriamo senza anticorpi»

Quella piccola regola aurea, così semplice, così trascurata: «Scegliete come dirigenti i migliori tra voi. Controllateli come fossero i peggiori». La ripeteva in tutte le assemblee Ivano Barberini, storico leader della Lega delle Cooperative scomparso sette anni fa. Mercoledì scorso è risuonata più volte, come monito inascoltato, nel chiuso di una dolorosa direzione nazionale di Legacoop. Col fango della “terra di mezzo” che cola giù da quella che pareva una cooperativa-modello, la 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Con l’angoscia del «ci risiamo», con le parole cooperativa e malaffare di nuovo nella stessa riga dei titoli dei giornali, come vent’anni fa, e l’incubo di un neologismo, mala cooperazione, che s’affaccia sui giornali.
«Imbarazzo? È un eufemismo. È stato come prendere cazzotti in faccia»: la bolognese Rita Ghedini è rientrata nel mondo cooperativo da appena un mese, dopo sei anni in Senato, appena in tempo per la bufera. Diluvia da tutti i punti cardinali, anche quelli amici. Uno storico cooperatore come Luciano Sita, ex mister Granarolo, invoca la «rifondazione etica». «Ci vuole il diserbante», va giù durissimo Stefano Bonaccini, neo-governatore Pd dell’Emilia Romagna, madrepatria cooperativa. E martedì prossimo a Roma comincia il 39esimo congresso nazionale. Parlerà tra i primi don Luigi Ciotti. Di mafia e corruzione.
«Come fossero i peggiori». Be’, a volte lo sono davvero. «E scoprirlo fa molto male a chi ha scelto la cooperazione per non avere padroni e non essere padrone di nessuno»: Roberto Lippi presiede l’Open Group, cooperativa emergente di Bologna, 350 soci, l’ambizione di tenere assieme il sociale e il culturale: «La vicenda romana è di una gravità inaudita non solo perché c’erano dei malavitosi in cooperativa, ma perché nessuno se n’è accorto».
Bene, e i controllori che fanno? Tirano fuori la storia della mela marcia? Il numero uno di Legacoop, Mauro Lusetti, scuote la testa, «ci starebbe. Il nostro mondo è sano, quella cooperativa faceva solo 50 milioni di fatturato sui 4 miliardi delle cooperative del Lazio. Ma non ce la possiamo cavare così. Abbiamo un problema di anticorpi». E già, ma i globuli bianchi nel sangue rosso del sistema cooperativo, chi li deve fabbricare? I controllori, non siete voi? «Certo che sì. Ma controllare cosa significa? Noi, Lega, vediamo i bilanci, i numeri: e quelli erano a posto. Io non metto le cimici sotto i tavoli, non possiedo microfoni bidirezionali, non intercetto telefonate... Certo, bisogna cambiare le regole di accreditamento, trasparenza e sorveglianza. E lo faremo». Proposte: tetto alle retribuzioni dei dirigenti (non più di cinque-sei volte lo stipendio più basso). Anagrafe patrimoniale dei dirigenti visibile a tutti. Ricambio periodico obbligatorio degli incarichi: «non voglio più sentir dire “la cooperativa di Caio”», basta dirigenti-padroni e presidenti-patriarchi in carica per decenni. Un inviato della Lega in ogni assemblea. Di tutto questo si discuterà al congresso. «Ma capiamoci bene», calca la voce Lusetti, «non basteranno mai le regole dall’alto e i controlli a posteriori. La prevenzione funziona dove nasce il guasto. Nella singola cooperativa. Nella coscienza dei singoli soci. Troppi occhi non hanno visto».
Secondo comandamento dei sacri principi di Rochdale, tavole della legge cooperativa, 1844, giusti giusti 170 anni fa: il controllo dal basso. Dov’è finito? «È troppo facile dire che nessuno sapeva. L’odore di certe cose dentro un’azienda si sente»: Fabio Ferrario, a Milano, presiede Clo, settore logistico, grossomodo le dimensioni della famigerata 29 Giugno, «abbiamo 1.300 soci e io li conosco di persona quasi tutti. Se vogliono sapere come vivo, quanto guadagno, quali persone frequento, prego, la porta è aperta, è tutto a disposizione. Se sgarro, qualcuno se ne accorge. C’è solo una strada contro il contagio: restituire le cooperative ai soci».
Ma si può? E loro le vogliono indietro? Il mondo cooperativo è cambiato. Ci sono aziende con migliaia di soci che non hanno mai messo piede in un’assemblea o visto un bilancio. Come possono controllare ciò che non conoscono? Il gigantismo è un problema? «Ma da quando è una colpa crescere, essere bravi sul mercato?», scatta Marco Pedroni, presidente di CoopItalia, le Coop di consumo, «incazzatissimo per questa storia. Anche perché voi nei titoli mettete “le coop”...». Coop che di soci ne hanno addirittura milioni. «Era Berlusconi che ci voleva confinare nel piccolo è bello... che poi è bello per i privati a cui facciamo concorrenza. La dimensione non è il problema. La 29 Giugno era un’azienda media. Il problema è come li fai, i fatturati. Glielo dico chiaro: i “casi estremi” come quello di Roma non nascono nel vuoto. C’è un contesto che li consente. S’è logorato qualche caposaldo». Sì, e non da oggi. Davanti ai giudici di Mani pulite sfilarono cooperatori che allargavano le braccia, “eh, per stare sul mercato bisogna accettare...”. «No, con questa logica una cooperativa è finita. L’impresa cattiva scaccia sempre quella buona».
E poi, davvero i soci sono i controllori migliori? Il socio che portava in cooperativa la sua etica di militante del partito o del sindacato non esiste più. In era post ideologica, il socio di cooperativa è spesso un azionista muto, se non il titolare di una sorta di carta sconti. O magari è il socio lavoratore che vuole continuare ad avere un salario, ma non vuole sapere come i suoi capi glielo procurano. «I soci difficilmente sono corrotti, e difficilmente sono ciechi. Spesso però danno fiducia a chi la tradisce», li difende Paola Menetti, che dirige il settore sociale di Legacoop, oggi nella bufera, «per poi capire troppo tardi che il malaffare porta tutti al disastro. Bisogna cambiare cultura. I soci devono tornare padroni delle loro aziende, avere il coraggio di rinunciare a un appalto truccato, di denunciarlo, oppure non ha senso chiamarci cooperative». «Se ho accettato di fare il socio», insiste Ghedini, «devo sapere che io per primo ho un pezzo di responsabilità. Il sistema cooperativo semmai mi deve dare i mezzi per esercitarla».
Come ogni lavacro etico, il mea culpa delle cooperative invoca il ritorno alle origini, allo spirito dei tessitori di Rochdale. «La nostra omologazione al sistema dominante è andata oltre il sopportabile», scrive alla sua rivista il cooperatore friulano Gian Luigi Bettoli. Se sia troppo tardi per recuperare, lo dirà il futuro prossimo. Il passato prossimo intanto lascia il segno. «Qualcosa si è affievolito, la distintività è nei nostri codici etici ma non sempre la pratichiamo», è la morale di Lusetti, «per quanto ci sforziamo di filtrare, di denunciare le false cooperative, a molti ormai la cooperazione appare solo come una formula fiscale. Ci siamo omologati, è vero, e il problema va oltre questo caso orrendo».