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 2014  novembre 27 Giovedì calendario

Myung-Whun Chung, sudcoreano, 61 anni, uno dei massimi direttori d’orchestra del mondo, immortalato nella pausa fra una scena e l’altra del Simon Boccanegra di Verdi alla Fenice sul podio, scalzo e in posa yoga

Guardate questa foto. È stata scattata dal loggione della Fenice sabato scorso, durante il Simon Boccanegra di Verdi che ha inaugurato la stagione veneziana. Il signore visto dall’alto non sta facendo yoga e quello su cui incrocia le gambe non è un tappetino, ma il podio del direttore d’orchestra. E non si tratta nemmeno di un signore qualsiasi, ma di Myung-Whun Chung, sudcoreano, 61 anni, uno dei massimi direttori del mondo, immortalato nella pausa fra una scena e l’altra del sempreVerdi.
Colpiscono tre dettagli. Nell’ordine: 1) Chung dirige senza partitura; 2) Chung dirige senza scarpe; 3) quando non dirige, Chung si accoccola sul podio in posizione da yoga. Il che significa: 1) che Chung conosce il Boccanegra come le sue tasche; 2) che Chung vuol stare comodo (oppure ha i calli); 3) che Chung è serafico anche durante una «prima» del Simone, cioè la serata più difficile di un titolo difficile. Per finire, si capisce anche da questo scatto che ha raggiunto lo stadio di molti grandi maestri in età matura, quello della Grazia, quando dirigi non per gli orchestrali né per la critica e forse nemmeno per il pubblico, ma solo per te stesso, perché ti piace, perché ne hai bisogno, perché magari hai ripensato a questa musica e ci hai scoperto quello che pensavi non ci fosse o che fosse diverso. Oppure, semplicemente, perché ami Verdi e il tuo lavoro.
Infatti il Simone di Chung non è stato bello: è stato magnifico, il più intenso e straziante, tenero e violento, doloroso e luminoso dai tempi di Claudio Abbado. C’era perfino per cantarlo una gran bella compagnia e la regia era mediocre, ma non tanto da rovinare il resto (in ogni caso, potete farvene un’idea stasera alle 21.20, perché Rai5 lo trasmette).
Ora, il Simone non è l’opera «più bella» di Verdi, anche perché questo non significa niente, ma sicuramente quella in cui Verdi ha messo più di se stesso. In particolare, la sua doppia delusione, quella privata per la paternità mancata e quella pubblica per un’Italia alla fine sì fatta, e fatta anche da lui, ma fatta male. Per questo è un’opera cupa, dolorosa, ferrigna, dove gli unici raggi di sole sono illusioni.
Bene: tutto questo, Chung lo fa capire. E va bene che nessuna persona sensata può credere più che gli italiani siano i migliori per la musica italiana, i tedeschi per quella tedesca e così via, però che questo Verdi così vero e giusto te lo racconti uno nato a Seul un po’ fa pensare (poi sì, d’accordo, il coro e l’orchestra sono quelli veneziani e sono magnifici). E così il Simone «made in Corea» è perfettamente verdiano, tutto: le ballate romantiche e le albe sulla marina che tremola come in un quadro impressionista, la grande oratoria civile con il suo messaggio di concordia – sprecato – per gli italiani di sempre e le lacerazioni degli affetti privati.
Un piccolo grande uomo senza scarpe (se le è poi infilate per venire a prendersi gli applausi finali, deliranti) ci ha dato una grande lezione, e non solo di musica. È la globalizzazione che ci piace: un italiano di ieri e un coreano di oggi che ci fanno emozionare e pensare, che mettono in movimento il nostro cuore e il nostro cervello per rendere un po’ migliore il domani.