Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 27 Giovedì calendario

Da un’idea di Renzo Piano nasce un nuovo magazine, “Periferie”, per riscattare le zone malate delle nostre città. Dal lirismo di Calvino alla denuncia dei cronisti, c’è un bisogno assillante di bellezza

«Erano sposi. Lei s’alzava all’alba/ prendeva il tram, correva al suo lavoro./ Lui aveva il turno che finisce all’alba/ entrava in letto e lei n’era già fuori». Forse nessuno è riuscito a raccontare l’alienazione della periferia come Italo Calvino che scrisse, sulla musica di Sergio Liberovici, Canzone triste. Dove l’unico momento di serenità è quel breve incrocio in cucina: «Soltanto un bacio in fretta posso darti/ bere un caffè tenendoti per mano./ Il tuo cappotto è umido di nebbia./ Il nostro letto serba il tuo tepor».
Erano periferie operaie, di fuliggine, di tute di tela grezza color carta di zucchero, di palazzoni coperti di mattonelle giallastre, «mattina e sera i tram degli operai/ portano gente dagli sguardi tetri;/ fissar la nebbia non si stancan mai/ cercando invano il sol fuori dai vetri…». E non si può capire l’orrore di certe periferie di oggi, dove ormai non ci son quasi più operai e men che meno operaie e la povertà decorosa è affogata nel degrado, nel vandalismo, nella sporcizia, nella microcriminalità, nello spaccio di droga, se non si torna al momento in cui furono costruite. E al carico di sogni che accompagnò spesso la loro progettazione, sogni che finirono per schiantarsi quasi sempre nella realtà di cantieri che, fatto l’alveare e finiti i soldi, ignorarono la necessità di corredare i dormitori di tutto il resto. Il verde, gli spazi collettivi, i punti di ritrovo e di sintesi della comunità.
Tutto ciò che avrebbe consentito ai «detenuti» dei nuovi palazzoni, in parte deportati dei centri storici, di vivere. Si pensi al Nuovo Corviale, il serpentone immaginato forse dall’architetto Mario Fiorentino come una cittadella che potesse avere una vita autonoma dignitosa e presto diventato un mostro di rara bruttezza: migliaia di persone assediate e intimidite che vivono tra finestroni spaccati, ascensori defunti, campanelli rotti, spazzatura… O a Librino, l’alveare disegnato da Kenzō Tange che i catanesi chiamano «Libbrìnu» o meglio ancora «’u quatteri», dove mai si è visto il gran parco immaginato dall’architetto giapponese e dove una cronaca da incubo registra da decenni morti ammazzati, stupri di gruppo, agguati ai poliziotti, guerre tra pusher decisi a imporsi sugli altri al punto che nel luglio del 2014 in casa di un aspirante re dello spaccio è stato trovato un trono lamellato d’oro. O ancora alle case popolari di via Selinunte, a Milano, dove la signora Georgia con due disabili in famiglia ha raccontato al «Corriere»: «Una sera iniziano a dar botte sulla porta, stavamo mangiando, sembrava che volessero sfondarmela. Apro, terrorizzata. Tre arabi urlano: “Dove sta il negro?”. Non so chi cercassero, forse erano robacce di droga. Quella sera hanno “perquisito” anche altre case del palazzo. Ma che vita è questa?».
Certo, per molti di quelli che si insediarono nei nuovi palazzoni ai tempi del boom, «prima» era peggio. Lo dicono certi racconti calabresi di Corrado Alvaro («I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali…»), ma anche certe cronache del «Gazzettino» sulle condizioni dei contadini polesani che vivevano in casoni di canna. «C’è un caso di 15 persone costrette in una sola stanza: otto adulti e sette bambini…». Lo conferma, tra gli altri, un reportage di Piero Ottone sulle «Coree» di Cinisello Balsamo, dove molti immigrati fuggiti da quelle periferie medievali del Paese si erano accampati in vecchie cascine diroccate: «La prima impressione che mi colpisce è un puzzo insopportabile; di muffa, di feci, di vecchio e di sporco. Mi guardo in giro: un armadio in rovina, un gran letto di ferro, con rozze coperte a brandelli e senza lenzuoli, un letto più piccolo e una indicibile confusione di casse, di rottami. Due finestrelle, alte nella parete di fronte, sono ermeticamente chiuse. Sul pavimento di mattonelle slabbrate e disuguali, fra le pozzanghere di orina e di altro sudiciume, sono seduti i bambini seminudi, sporchi e pallidi, che di bello hanno soltanto i grandi occhi neri».
L’«appartamento», con l’acqua corrente, la luce e il bagno, per chi aveva vissuto nei tuguri, faceva brillare gli occhi quanto le cartoline degli emigrati coi giganteschi tacchini della festa del Ringraziamento. Bastarono pochi anni, però, a far crescere nell’animo di ciascuno delusione, angoscia, insofferenza… Scriveva nel 1960 Danilo Montaldi in Milano, Corea, grande libro sulle periferie firmato con Franco Alasia: «Per tutti la speranza si arena al capolinea del 15, del 16, dell’8, del 28…».
Non ci misero molto, gli intellettuali più attenti, a capire che quelle periferie costruite senza amore, quei carnai di cemento armato («case-canili», le chiamava Antonio Cederna) tirati su tra una poltiglia di baracche abusive, stavano diventando polveriere di rabbia, di rancore, di odio. Tra i pionieri, c’era Pier Paolo Pasolini, che ne traeva spunto per poesie su quei palazzi, «quasi mondi» dove «ragazzi leggeri come stracci giocano alla brezza». «Per lui l’emarginazione era una categoria letteraria», ricorda don Roberto Sardelli, il prete che lasciò la parrocchia per vivere nelle baracche dell’Acquedotto Felice, «lui era un uomo dedito alla ricerca artistica, non gli interessava vedere la realtà. Anche lui, io me lo ricordo in borgata, era prigioniero di uno schema».
Fatto sta che il tema del risanamento delle periferie, percorse dai cronisti nella scia di questo o quell’episodio di cronaca, questo o quella inchiesta di costume, è man mano uscito dal dibattito intellettuale e politico. Certo, di tanto in tanto, forse per i sensi di colpa, c’è stato un soprassalto di attenzione. Come una paginata sul «Sole 24 ore» del luglio 1991 intitolata: Dai quartieri un Sos per la rinascita. «Riqualificare è inevitabile perché la periferia come l’abbiamo costruita non conviene più a nessuno», scriveva Francesco Perego, «ma in che cosa la riqualificazione debba consistere, non è scontato. Le luminose certezze dell’urbanistica moderna si sono dimostrate infatti un fallimento». E nuovi fallimenti sarebbero seguiti alle promesse di risanamento dettate da motivi di bottega elettorale. «Investiremo 100mila miliardi di lire!». Sì, ciao.
Per questo quando Renzo Piano ha messo sul tavolo il tema del «rammendo» delle periferie, (quel gran tavolo di compensato essenziale e operativo montato nel suo studio in Senato), si è levato intorno un certo stupore: ah, sì, giusto, è vero, le periferie! Eppure il tema era lì, sotto gli occhi di tutti: il risanamento edilizio, urbanistico, civile delle periferie dove vivono almeno 28 milioni di italiani, spalancherebbe la porta al risanamento morale. Perché, come dice Giancarlo Bregantini, a lungo vescovo di Locri, «un ragazzo che cresce in un posto brutto è più facile che cresca brutto». E sempre lì si torna: c’è bisogno di bellezza. Siamo assetati di bellezza.