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 2014  novembre 26 Mercoledì calendario

L’amministratore delegato di Enel Starace: «L’innovazione elettrica italiana è un modello per conquistare nuovi mercati all’estero. Reti intelligenti, rinnovabili e riassetto organizzativo nelle ricette da esportare»

L’amministratore delegato intende ripartire dall’Italia e dai punti di forza che il gruppo ha nel paese (reti intelligenti, tecnologie delle rinnovabili, ma anche un modello di razionalizzazione degli investimenti e di taglio dei costi) per vincere le nuove sfide della globalizzazione. Starace non ha paura di confrontarsi con uno scenario non facile. L’indebitamento, consistente e atteso a 39,4 miliardi a fine anno, non spaventa più di tanto. Il manager si prepara a declinare, nel piano industriale che sarà presentato a marzo, la sua strategia: un’azione mirata per garantire maggiori flussi di cassa, che farà perno su dismissioni (Slovacchia e Romania) e sulla capacità della nuova organizzazione del gruppo di razionalizzare gli investimenti e ridurre quelli sinora dedicati alla manutenzione, per liberare almeno 1,6 miliardi di liquidità aggiuntiva tra il 2015 e il 2016. Di pari passo andrà un ridimensionamento del ricorso all’emissione di bond: «siamo stati un “bondificio” per troppo tempo», chiosa.
Nel frattempo si sta ridefinendo il perimetro industriale del gruppo. Molte centrali termoelettriche italiane, oppresse dai consumi tagliati dalla crisi e dalle quote crescenti delle rinnovabili incentivate, dovranno essere chiuse o riconvertite. Il business sarà semmai nella gestione della generazione distribuita, nelle reti intelligenti, nelle nuove alleanze strategiche, in Italia e oltrefrontiera, con gli altri protagonisti dell’innovazione. Ad esempio con Terna, il manovratore delle reti «che bene ha operato negli ultimi anni», afferma il manager. E molto ci si aspetta dai regolatori italiani ed europei. Per rivedere, tra l’altro, le norme che hanno impedito, e tuttora impediscono, di stipulare con i clienti finali contratti di lungo periodo «che oggi potrebbero garantire concreti vantaggi ai consumatori».
Il titolo Enel quota in questi giorni attorno a 3,68 euro. Quando arriverà a 5 euro?
A fine 2015.
Al suo arrivo al vertice di Enel il gruppo aveva realizzato un posizionamento strategico all’estero attraverso acquisizioni. La nuova stagione che lei ha avviato riporta al centro il ruolo dell’Italia, nel senso che lo sviluppo del gruppo sembra partire da una scommessa forte e innovativa in casa. Ci può spiegare qual è il suo piano?
La situazione che ho ereditato quando sono stato nominato vedeva un gruppo molto cresciuto all’estero e proiettato su mercati abbastanza lontani, come Russia, America Latina, Est Europa. La struttura organizzativa era più che altro il risultato della stratificazione per così dire geologica di varie ere che si sono succedute in Enel. L’organizzazione aveva due divisioni concentrate sull’Italia, Produzione e Mercato e Distribuzione, che rappresentavano ciò che restava dell’Enel di una volta. Ad esse era stata affiancata una divisione Internazionale cui facevano riferimento tre paesi, Romania, Slovacchia e Russia. In essa convivevano due business differenti, distribuzione e generazione, e tre aziende, di cui una quotata (in Russia) e due che hanno partner statali come il governo slovacco in un caso e quello rumeno in un altro. E ancora: c’era la divisione Iberia e America Latina, cui faceva riferimento anche Endesa e dentro la quale c’era un coacervo di business diversi (generazione e distribuzione), geografie diverse (Spagna, Portogallo e cinque paesi dell’America Latina). E poi Enel Green Power, in cui era presente una uniformità di tecnologia declinata in tutto il mondo. E infine c’era la divisione Exploration e Production di gas. L’Enel che ho ereditato aveva una forma ibrida, con modelli diversi di organizzazione in parte per filiera tecnologica, in parte per entità societaria (Endesa), e in altri casi guidata da una logica geografica (Est Europa).
Come ha cambiato questo modello organizzativo?
Abbiamo deciso di ripensare il nostro business su una dimensione globale, creando grandi filiere trasversali. Riunificando sotto una unica divisione tutte le reti che possediamo abbiamo scoperto di possedere la più grande società di distribuzione privata a livello mondiale: 61 milioni di clienti, seppure distinti in otto realtà geografiche, non li ha nessun altro. Abbiamo eseguito il medesimo processo per la generazione convenzionale (non da fonti rinnovabili) e anche in questo caso abbiamo scoperto di essere un grande produttore con 90mila megawatt, presente in tutte le tecnologie. Sotto le divisioni sono state individuate quattro aree geografiche in cui abbiamo suddiviso la nostra organizzazione, partendo da America Latina, Est Europa, Iberia. E così facendo abbiamo anche capito che c’è un’altra realtà geografica che si chiama Italia. Abbiamo creato questa entità dandole quella dignità che hanno gli altri paesi nel gruppo. L’Italia è arrivata per ultima nel perimetro dell’Enel, ma alla fine è arrivata. Nel giugno scorso.
Quali sono le carte su cui può scommettere l’Italia rispetto alle altre identità geografiche?
Può scommettere molto sullo sviluppo tecnologico. In Italia è stata avviata, tra i primi paesi al mondo, una importante innovazione tecnologica per un’intuizione di Franco Tatò (amministratore delegato di Enel dal 1996 al 2002, ndr) che oggi ha reso il nostro paese l’unico a livello globale ad avere completamente digitalizzato la rete di distribuzione con l’istallazione di 36 milioni di contatori digitali all’interno di un sistema completamente digitalizzato. La rete oggi è in grado di gestire grandi complessità, come i 600mila impianti di generazione presenti sul territorio dai quali affluisce l’energia, senza particolari problemi. E posso annunciare che presto si compirà un ulteriore salto in avanti: dal 2016 metteremo in funzione un nuovo contatore digitale, per dare una serie di servizi aggiuntivi e ulteriori capacità di gestione di questa rete. Questa preminenza tecnologica dell’Italia ne fa, all’interno del sistema di Enel, un caso importante, un modello da replicare all’estero. Stiamo istallando contatori digitali in Spagna e contiamo di fare altrettanto in America Latina.
Quindi per vincere nel mondo si riparte dall’Italia.
Si riparte dall’Italia sia per quanto riguarda le reti e sia per alcune tecnologie, come il solare, che ci ha consentito di vincere gare in Sudafrica e in Brasile.
Le rinnovabili: una magnifica frontiera, ma anche un bel rebus. Anche e forse soprattutto qui in Italia, dove il mercato delle energie verdi si può considerare maturo. Dopo una lunga fase di robusti sussidi si è detto basta. Le rinnovabili devono fare da sole, se sono in grado. Lei insiste sul fatto che gli investimenti devono essere comunque garantiti da una redditività. Le rinnovabili possono cominciare a camminare con le loro gambe, senza sussidi? Insomma, possiamo parlare già oggi di grid parity (la convenienza di un impianto rinnovabile rispetto all’energia acquistata in rete, ndr) o addirittura di un imminente market parity (il costo di generazione direttamente competitivo rispetto alle altre fonti, ndr)?
Sì. All’estero come in Italia la competitività assoluta delle rinnovabili è una realtà. In Brasile abbiamo vinto una gara con un prezzo di vendita dell’energia solare di 68 euro a megawattora. La tecnologia fa passi da gigante. Le rinnovabili, il solare, l’eolico, ma anche le biomasse, possono essere già oggi molto competitive.
Italia laboratorio strategico e tecnologico. Ma proprio in Italia siete intanto obbligati ad una drastica razionalizzazione. L’auspicata ripresa dei consumi elettrici non basterà, ha detto. E ha annunciato un piano per chiudere più di 20 centrali termoelettriche, o per favorirne la riconversione in qualcosa di diverso.
Dobbiamo accettare la realtà. Si tratta di impianti che da cinque o dieci anni sono fermi o producono pochissimo, non solo perché la domanda è scesa o perché le rinnovabili hanno guadagnato spazio. Non producono perché sono comunque spiazzati da altri impianti termo elettrici più moderni ed efficienti, o hanno addirittura esaurito il periodo di autorizzazione a funzionare. Dunque, non hanno un futuro anche se riprendesse la domanda elettrica. Non servono più, e non sono neanche cedibili perché comunque non sarebbero redditizi. Molti sono comunque fuori gioco, perché nel frattempo sono stati inglobati nelle aree metropolitane. Potranno diventare ad esempio centri commerciali o qualcos’altro. Alcuni possono trasformarsi in insediamenti produttivi di altro genere. In qualche caso, ma solo in qualche caso, possono tornare a produrre energia, ma con altre tecnologie.
Si parla di una possibile soluzione per la mega-centrale di Montalto di Castro, che potrebbe essere riconvertita per la valorizzazione dei rifiuti prodotti dalla capitale. È un’ipotesi realistica?
È una delle ipotesi possibili, da verificare attentamente tenendo conto di molti fattori, in primis quello del consenso locale. Montalto è un sito colossale, dove non c’è solo la centrale più grande d’Italia ma esiste anche un territorio di rispetto che era stato previsto per l’originario progetto di una centrale nucleare. Si potrebbero fare tante cose, insieme, contemporaneamente. Stiamo lavorando per trovare una soluzione, non solo lì, tenendo conto della specificità dei singoli siti.
Quando sapremo qualcosa di più?
A gennaio, dopo aver sentito gli stakeholder locali. Poi avvieremo un vero confronto con tutti. Ben consapevoli delle opportunità ma anche dei vincoli.
Ad esempio?
Tra le ipotesi, ad esempio, non ci sarà la conversione a carbone di Porto Tolle, dopo che per dieci anni questa soluzione è stata ostacolata in tutti i modi.
Dopo la riconversione a carbone pulito di Civitavecchia pensate di realizzare altre centrali di questo altrove?
No. Credo che non sia più praticabile né in Italia né in Europa, tenendo conto dei nuovi crescenti impegni per la decarbonizzazione. Forse è meglio occuparsi di rendere più ecologiche le centrali a carbone esistenti, piuttosto che costruire nuovi impianti.
E il nucleare? Con l’uscita dalla Slovacchia diminuirete il vostro ricorso a questa tecnologia. Rimarrà la Spagna. Con quali prospettive?
Con poche prospettive. Il nucleare di oggi è poco interessante e richiede un orizzonte temporale non più accettabile per un investitore privato. Può essere forse praticabile per uno Stato sovrano, o per qualcuno disposto ad azzardare operazioni davvero rischiose per gli stessi costi finali dell’energia. È il caso dell’Inghilterra, dove gli investimenti privati nel nucleare si materializzano solo quando lo Stato garantisce 35 anni di prezzi molto elevati dell’energia, nettamente fuori mercato. Ecco perché dico che questo nucleare non è interessante per un’azienda privata. Se nei prossimi decenni verrà sviluppato nucleare diverso, meno critico dal punto di vista dei tempi e delle tecnologie, ne riparleremo. Per ora è fantascienza.
Uno scenario ben diverso da quello tracciato dall’Enel solo quattro anni fa, con un mega studio che teorizzava l’assoluta convenienza del ritorno al nucleare in Italia.
È vero, è cambiato tutto. La visuale è cambiata. Ed è bene che sia così.
Con quel piano abbiamo sbagliato tutto?
Sì. Abbiamo sbagliato.
A proposito di Spagna, pensate di cedere quote ulteriori di Endesa dopo il successo della vendita del 22 per cento?
No, non è previsto.
Intanto il nuovo disegno industriale, rovesciato rispetto alla preminenza dell’estero teorizzata anche nel recente passato, deve fare i conti con l’impegno della riduzione dell’indebitamento riconfermato anche da lei. Eppure nei giorni scorsi avete annunciato a sorpresa la revisione al rialzo del target di debito di fine 2014, da 37 a 39 miliardi. Il mercato l’ha presa male. Secondo lei perché questa reazione?
Penso che il mercato in quel momento non abbia capito, ma capirà. Quello che abbiamo detto alla presentazione dei dati dei 9 mesi è che avevamo un debito di 44 miliardi a fine settembre che scenderà sotto 40 miliardi a fine anno, perché nell’ultimo trimestre il flusso di cassa è tradizionalmente più elevato. Quello che abbiamo fatto è stato dare priorità a una dismissione che non era prevista, ovvero le cessione del 22% di Endesa che ha determinato un incasso di 3,1 miliardi (ieri Credit Suisse ha comunicato di avere esercitato per intero la green shoe, ndr), ma che è strumentale al disegno organizzativo sopra descritto con la separazione delle attività dell’America Latina dalla Spagna. Dopo la cessione in Spagna possiamo affrontare le dismissioni in Slovacchia e Romania, previste anche dalla precedente gestione, con un spirito competitivo nei confronti di chi ci fa le offerte. Questo perchè comunque ridurremo il debito a fine anno attorno a 39,4 miliardi senza il bisogno di fare altre cessioni.
Ritiene che 39,4 miliardi di debito netto sia una soglia di sicurezza anche con le agenzie di rating?
Su questo non c’è dubbio. Il livello del nostro debito, se confrontato con l’Ebitda (15,5 miliardi a fine 2014, ndr) non è un numero straordinario. Sinora la comunità degli analisti che ci segue ha guardato il debito con grande attenzione perché non aveva piena fiducia nella capacità di Enel di mantenere il livello di Ebitda nel tempo. A questo dubbio rispondiamo ora con un cambio di passo: da una parte, la creazione di una struttura organizzativa che ci consente una gestione più oculata del business, un’azione di controllo dei costi per irrobustire la generazione di cassa. Dall’altra, abbiamo ancora due cessioni da fare, Romania e Slovacchia, che sicuramente chiuderemo il prossimo anno. Sin da ora e anche nel 2015 saremo più tranquilli perché queste sono due carte che possiamo giocarci il prossimo anno. Ritengo che l’impatto della notizia sul debito sia stato già riassorbito dal mercato e nelle prossime settimane si vedrà ancora meglio. Sarà compresa meglio la nostra visione, che sarà molto più chiara nel piano industriale che presenteremo a marzo 2015. Sinora si era andati avanti confidando su uno scenario di crescita dei prezzi, trainati da una domanda di energia che invece è stata falcidiata dalla crisi. Allora si è cominciato a costruire scenari sulle attese di un’uscita dalla crisi. Io penso che bisogna invece impostare una pianificazione sulla base dello scenario attuale e poi in caso gestire le opportunità di miglioramento. Dunque, ora portiamo a casa quello che ha senso portare a casa: e cioè, una struttura organizzativa rinnovata, la separazione e la gestione di Endesa e le due cessioni, Romania e Slovacchia. Ma con il tempo giusto, perché fare la corsa per vendere la generazione e la distribuzione di due paesi in sei mesi è un po’ avventuroso.
Nella sua strategia, dunque, la sostenibilità del debito è legata ad una gestione che fa perno su una maggiore generazione di cassa. Ci può tradurre in numeri i benefici che può ricavare, ad esempio, dalla nuova organizzazione?
Gli investimenti nel precedente piano erano 27 miliardi in 5 anni. Di questi, due terzi – ovvero 16,5 miliardi – servivano per tenere in esercizio gli impianti: un dato sproporzionato che è indice di un malessere. Questa sproporzione nasceva dal fatto che c’erano più di trenta centri decisionali in materia di investimenti e manutenzione. Abbiamo individuato coloro tra questi che avevano le migliori performance e abbiamo chiesto a tutti gli altri di attenersi a quegli standard. Abbiamo fatto qualcosa del genere in Enel Green Power e il risultato è stato un 20 per cento di risparmi sugli investimenti nei primi due anni. Traslando l’esperienza in Enel e volendo essere prudenziali diciamo che possiamo avere il 10% di risparmi, ovvero 1,6 miliardi di risorse che vengono liberate dalla manutenzione (nei primi due anni del prossimo piano, ndr). Di solito, poi, ai risparmi sugli investimenti di manutenzione sono connessi risparmi di costi operativi. Dunque, una riduzione del 10 per cento negli investimenti di manutenzione si porta dietro un 20 per cento di costi operativi in meno. In Italia questo tipo di efficienza è stata fatta abbastanza, ma dobbiamo ancora farlo nel resto del mondo.
Nel piano di marzo includerete dunque risparmi su investimenti per 1,6 miliardi?
L’ordine di grandezza dovrebbe essere quello. Sono risorse che possono diventare un Ebitda più elevato, dividendi, minore debito. Vedremo. Nel primo anno di piano si cominceranno a vedere i primi effetti e nell’anno successivo si avranno la gran parte dei benefici.
Lunedì è scaduto il termine per presentare le offerte per gli asset di E.On. Perché Enel alla fine non si è fatta avanti?
Gli asset idroelettrici di E.On sono molto interessanti, quelli termoelettrici un po’ meno. Penso che sarebbe stato poco sensato ricomprare una delle Genco (ovvero una delle società di generazione, Eurogen, cedute da Enel sul mercato negli anni passati, ndr) dopo che la stessa è passata di mano tre volte. Ci sono poi i clienti di E.On, sia per il gas che l’energia. Alla fine abbiamo ritenuto che fare un’offerta solo per i clienti, quando c’è chi invece fa offerte per tutti gli asset, non avrebbe avuto senso, avremmo avuto poche chance.
A inizio dicembre il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, vorrebbe cedere sul mercato il 5% di Enel. Qual è la sua posizione?
Su questo tema dovete chiedere al ministero, non ho voce in capitolo. Per noi la cosa importante è che si smetta di parlarne, perché ogni volta che escono articoli sulla privatizzazione il titolo va giù in Borsa.
Forse qualcuno ne parla apposta, magari per trarne vantaggi speculativi.
Non avevo mai pensato effettivamente a questa possibilità.
Lo scorso anno Enel aveva annunciato una revisione al rialzo della politica dei dividendi. Farete cambiamenti?
Era stato annunciato che avremmo portato il pay-out dal 40 al 50 per cento dopo il 2015. Penso che sia ancora possibile mantenere questo target. Ora non vedo il motivo per cambiarlo.
È una promessa?
Allo stato attuale direi di sì.
In occasione di un’audizione in Senato il mese scorso lei ha lasciato intendere che vuole ripensare i piani di emissioni obbligazionarie del gruppo. Come?
Enel è stato, passatemi il termine, un grande “bondificio” per molto tempo. Penso che possiamo fare una rimessa in bella di tutto il panorama di bond che abbiamo. C’è un potenziale miglioramento da questa punto di vista.
Può spiegarci come intende procedere?
Possiamo fare molte cose. Ad esempio, negli ultimi mesi abbiamo riacquistato un’emissione sul mercato.
Ma questo tipo di operazioni assorbe liquidità.
È vero, ma se conviene si può fare. Soprattutto in una fase in cui la disponibilità di liquidità da parte del sistema bancario è elevata. C’è forse qualche opportunità di miglioramento in questo ambito e di gestione più oculata del circolante, piuttosto che fare ulteriori emissioni di bond.
L’aumento del capitale circolante netto nei 9 mesi è stato un altro elemento non gradito dal mercato. Ha un piano per rendere più efficiente il cosiddetto working capital?
È indubbio che ci sia una stagionalità nel nostro sistema. I consumi del gas, per fare un esempio, sono concentrati in inverno e in media i flussi di cassa dei pagamenti delle bollette arrivano a marzo. E anche per l’energia elettrica va in questo modo. A fine anno nei nostri conti puntualmente arriva un flusso di cassa maggiore. C’è una dinamica intrinseca nel nostro sistema, è vero. Ma è anche vero che sopra questa dinamica si sono accumulati fenomeni nel tempo e lì dobbiamo lavorare di più. Per avviare un cambiamento dobbiamo cominciare a muoverci all’inizio di un anno per vedere risultati in quello successivo. In Enel Green Power avevamo lo stesso problema: ci abbiamo messo due anni per stabilizzare il sistema.
Anche su questo versante la tecnologia può aiutare non poco, rendendo più coerente e reattivo il sistema di vendita e di fatturazione rispetto al flusso dei consumi. Contatori digitali ancora più evoluti, digitalizzazione di tutti i processi: sarà questa la leva della nuova redditività?
Proprio così. In Italia abbiamo un grande patrimonio di innovazione su queste soluzioni. Si tratta di un fattore con un grande appeal finanziario, che può produrre molto in termini redditività. Specie se riusciremo ad aprirci anche a nuove collaborazioni. Ad esempio con Terna, la società per la trasmissione di elettricità (guidata fino alla primavera scorsa da Flavio Cattaneo che ha ceduto il testimone a Matteo Del Fante, ndr). Terna è un’altra eccellenza italiana che potrebbe e dovrebbe trovare spazio su territori più ampi rispetto a quello nazionale. Anche per favorire l’evoluzione del sistema elettrico ed energetico di un’Europa che ha consumi straordinariamente elevati, ma è geograficamente piuttosto compatta. In questo scenario ci si domanda quale utilità abbia una frammentazione dei mercati europei, e dei gestori di rete e dei dispacciamento, che ci sta procurando molti danni e nessun beneficio. Che senso ha il fatto che per passare da un paese all’altro un elettrone debba lasciare il sistema di gestione francese, essere sdoganato, entrare nel sistema di gestione italiano, essere nuovamente sdoganato per poi passare al sistema di gestione austriaco. Bisogna fare come è stato fatto per il traffico aereo: una progressiva unificazione dei centri di controllo.
Con problemi tecnici, problemi politici ma anche problemi di regolazione, tenendo conto del ruolo comprensibilmente crescente delle Authority nazionali ed europee, che per la verità sembrano sempre un po’ in ritardo nella loro azione.
Un ritardo comprensibile e in qualche modo giustificabile quello delle Authority. Lo scenario si evolve, e il destino del regolatore è quello di stare sempre un po’ indietro rispetto a quel che accade, cercando di adattare appunto la regolazione ai mutamenti. Certo, è importante il tempo di risposta, che non deve essere troppo lungo. Vorrei fare a questo proposito un esempi: nel 2003 l’Unione Europea decise che i contratti a lungo termine tra i produttori e i consumatori dovevano essere impediti, inserendo obbligatoriamente una clausola che garantisse ai clienti la possibilità di recedere senza alcuna penale in ogni momento. Una scelta che in quella fase era corretta, perché in Europa in quel momento c’era scarsità di produzione e un eccesso di potere contrattuale dei produttori. I clienti andavano dunque protetti. Dopo 11 anni lo scenario è cambiato. Il potere di mercato si è addirittura invertito, con un eccesso di capacità produttiva a livello europeo che consentirebbe a qualunque consumatore di avere un vantaggio contrattuale importante a patto di mettere di nuovo in gioco anche la durata nel tempo del contratto.
Siamo sicuri che contratti più lunghi e quindi più vincolanti sarebbero davvero più convenienti?
Sì, sono sicuro. È chiaro che tutto ciò va contro l’interesse dei trader, che svolgono attività senza valore aggiunto assicurandosi rendite puramente parassitarie, che si sviluppano solo grazie ad una vivacità artificiosa del mercato. Altrove, dalla Thailandia al Cile, dagli Stati Uniti all’Indonesia, non funziona così. I contratti di lungo termine sono una leva del mercato e una garanzia per gli stessi consumatori. Consentono di pianificare ed avere certezze sul costo dell’energia per 10 o 15 anni senza pesanti clausole di recesso che distruggono inevitabilmente il valore del contratto.
Forse in Italia sarebbe necessario risolvere prima i problemi legati, ad esempio, agli effetti redistributivi legati ai sussidi incrociati dei contratti cosiddetti di maggior tutela, ancora fortemente amministrati dall’Authority.
Purché questo non sia l’alibi per non cominciare a mettere mano davvero al sistema.
E così un cliente a basso consumo che oggi è sussidiato a spese di altri consumatori e paga poco finirebbe per pagare inevitabilmente molto di più.
Non è detto. Con un sistema libero dagli attuali vincoli quel consumatore, quella famiglia, troverà quasi sicuramente qualcuno disposto a offrire un contratto comunque conveniente.
Intanto si vuole mettere nelle bollette anche il canone Rai. Che ne pensa?
L’idea emerge periodicamente, anche se ancora non è chiaro chi dovrebbe farsi carico di gestire tutto ciò. Se i venditori o chi fa la commercializzazione, non i distributori. Aspettiamo che l’ipotesi prenda davvero forma. Ci sono vari aspetti da affrontare, come l’adeguamento dei sistemi informatici. Una cosa è certa: se qualcuno avrà un’incombenza in più, dovrà essere remunerato per questo.
Tutto ciò in uno scenario nazionale di riferimento che negli ultimi anni è molto cambiato, ma che conferma uno dei punti di forza storici della nostra economia: un tessuto di medie imprese che vivono di mercato e tuttora garantiscono 400 miliardi di esportazione e 100 miliardi di saldo attivo. Guai dunque se perdessimo questi primati nella meccanica di precisione, nella meccanica strumentale nell’arredo, nel sistema moda. Abbiamo alcuni grandi player nei servizi: lei ritiene davvero che stiano facendo tutto quello che possono devono fare per essere all’altezza di una sfida che qualche grande famiglia del capitalismo italiano ha nel frattempo perso? E secondo lei il paese ha la consapevolezza dell’importanza di questa sfida?
Dobbiamo essere pienamente consapevoli del fatto che tutta l’economia italiana è molto più grande del paese in cui vive. In altri termini: non avremmo l’economia così grande basandoci solo sull’Italia. Questo vale per il sistema economico e vale per i servizi. Oggi non si può dunque pensare di essere un player che fornisce servizi competitivi a livello globale rimanendo solo in un paese. Non si avrebbero le dimensioni necessarie, non si avrebbe la consapevolezza dei benefici della tecnologia che il mondo ci offre ogni giorno. Dico questo perché occorre domandarsi se i grandi erogatori di servizi in Italia si sono davvero costruiti una posizione globale, come l’Enel sta cercando di fare. Guardiamoci intorno: qualunque grande azienda italiana è diventata grande lavorando per l’Italia, ma soprattutto per i mercati internazionali, portando fuori dal nostro paese quello che siamo capaci di creare in termini di qualità e di innovazione.
Una sfida non facile in una fase di forte contrazione dell’economia e di incognite così pesanti sullo sviluppo.
Ecco perché è ancora più importante cominciare a fornire alla gente segnali precisi di affidabilità e di coerenza con una politica davvero espansiva. La gente è preoccupata, spaventata. L’italiano è un risparmiatore. Ma ora il rischio è che metta i soldi in banca, se li ha. O magari acquisti l’ennesima casa che non contribuisce al prodotto nazionale. Certo, far ripartire i consumi in Italia è difficile, ci vuole ottimismo e servono le azioni per superare l’incubo dell’austerity a tutti i costi. Negli Stati Uniti la Federal Reserve ha immesso trilioni di dollari nel sistema, in Europa si stenta a decidere di avviare misure analoghe.