la Repubblica, 26 novembre 2014
Come comportarsi con gli ostaggi occidentali in mano ai fondamentalisti islamici? Usa e Gran Bretagna difendono la linea dura del non pagare riscatti. Ma anch’essa ha avuto un costo politico: dopo la prima esecuzione si è deciso d’intervenire in Iraq. Perciò, sostiene lo scrittore Littell, forse è il caso di cambiare strategia
Qualche mese fa il New York Times ha pubblicato una lunga inchiesta giornalistica che illustrava nel dettaglio la politica seguita dai diversi Paesi ogni volta che un loro giornalista, operatore umanitario o semplice cittadino veniva preso in ostaggio, in particolare da gruppi islamisti combattenti. Citando un gran numero di funzionari pubblici, l’autrice dell’articolo sosteneva la validità della politica adottata da americani e inglesi, che consiste semplicemente nel non negoziare mai, in nessun caso, per la liberazione di qualunque ostaggio, e presentava la scelta non dichiarata dei Paesi dell’Europa continentale di pagare il riscatto come una politica perversa, autolesionista e forse addirittura criminale. Il titolo dell’articolo chiariva fin da subito quali sarebbero state le conclusioni: Pagando i riscatti, l’Europa foraggia il terrore di Al Qaeda.
Il pezzo naturalmente è stato pubblicato prima che a James Foley, e dopo di lui a Steven Sotloff, David Haines, Alan Henning e Peter Kassig (altri quattro cittadini americani e inglesi per cui i loro Governi hanno rifiutato di negoziare), venisse mozzata la testa di fronte a una videocamera da uno scagnozzo mascherato che proclamava di appartenere al cosiddetto “Stato islamico”, spingendo gli Stati Uniti a guidare un intervento militare di ampio respiro contro il gruppo armato insieme alla Francia e ad altri Paesi che invece hanno negoziato per liberare i loro ostaggi. Questi ultimi Paesi evidentemente ritengono, a differenza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, di avere il dovere morale di proteggere i propri giornalisti e operatori umanitari, e che questo principio a volte può portare a dover accettare compromessi spiacevoli. Questa “non politica” sul problema degli ostaggi (nella maggior parte dei casi il riscatto viene pagato, ma si nega di averlo fatto) li ha messi però nell’impossibilità di discutere in modo costruttivo della questione. Io non sostengo, nel modo più assoluto, che si debba accettare sempre e comunque di pagare il riscatto, ma penso sia arrivato il momento di introdurre qualche sfumatura in più nel dibattito: le cose non sono solo bianche e solo nere.
Stringendo all’osso, l’argomentazione principale per non pagare riscatti è che negoziando si incentivano i sequestratori a rapire altre persone, mentre rifiutando di negoziare li si scoraggia. Questa opinione è così forte in Gran Bretagna che il governo ha da poco annunciato che nel suo nuovo progetto di legge sull’anti- terrorismo il pagamento di riscatti, inclusi quelli da parte di compagnie d’assicurazione britanniche, diventerà un crimine. Questa tesi potrebbe essere vera se i sequestratori effettivamente pianificassero in anticipo le loro strategie e decidessero chi rapire sulla base alla nazionalità. Ma, non è quasi mai così, come sanno più o meno tutti quelli che conoscono bene il problema: praticamente sempre, in tutte le diverse ondate di sequestri internazionali (in Cecenia tra il 1996 e il 1999, in Afghanistan e in Iraq a metà anni 2000 o in Siria a partire dal 2012), gruppi criminali o formazioni armate di piccole dimensioni cominciano a catturare chiunque gli capiti sotto mano, e solo in un secondo momento provano a cercare di capire che si può fare con le persone sequestrate. Anche quando nei sequestri sono implicati gruppi più grossi, come l’Is o i Taliban, rimane un’attività estemporanea, frutto più di occasione che di scelta.
Inoltre, nel caso dell’Is, i fatti non sembrano offrire sostegno alla tesi angloamericana. È evidente che i sequestratori dello Stato islamico conoscevano la politica di Londra e Washington, ma nonostante questo, dopo aver comprato Foley e Cantlie da un altro gruppo indipendente, sono andati a cercare e catturare altri ostaggi inglesi e americani. Come mi ha spiegato recentemente uno degli ex ostaggi europei dell’Is in una conversazione privata, «i jihadisti sapevano che gli americani o gli inglesi, anche se non potevano usarli per negoziare, potevano sempre usarli per un video propagandistico, come poi hanno fatto. John Cantlie, nell’inverno del 2013, un po’ di tempo dopo che lui e Foley erano stati catturati, mi ha raccontato che uno dei jihadisti che li tenevano prigionieri gli aveva detto: “Per il momento i vostri governi se ne fregano di voi, ma vedrete quando ce ne saranno altri”».
Nulla di tutto ciò ha impedito all’amministrazione Obama di cercare di giustificare la sua posizione, come ha riferito il New York Times, sostenendo che il numero di americani e inglesi rapiti dagli islamisti è molto più basso di quello degli europei (il che può anche essere vero, ma è rilevante solo in rapporto alle opportunità a disposizione), e arrivando ad affermare che «Al Qaeda probabilmente non ha più intenzione di rapire americani», una professione di fede alquanto azzardata. Seguendo questa linea di pensiero, ci si potrebbe domandare se la politica di Stati Uniti e Gran Bretagna non punti a scoraggiare, più che i potenziali sequestratori, quei giornalisti e operatori umanitari che cercano di condurre il loro lavoro in modo indipendente nei Paesi in questione. Dopo tutto è stato il governo americano a modernizzare la propaganda di guerra inventando la figura del giornalista embedded, un modello che può funzionare solo se, fra le altre cose, per i giornalisti diventa impossibile lavorare in qualsiasi altro modo.
Si potrebbe far notare anche che la posizione di Stati Uniti e Gran Bretagna è venata di una notevole ipocrisia. Non sono il primo a rimarcare l’incoerenza tra la disponibilità dell’amministrazione Obama a rilasciare cinque prigionieri Taliban di alto profilo in cambio di un soldato americano e il rifiuto di negoziare per salvare la vita agli ostaggi nelle mani dell’Is; e la Casa Bianca è da un po’ che prova, con scarso successo, a cercare di giustificare questo comportamento contraddittorio. E ci sono molti altri modi per garantire il rilascio di un ostaggio oltre a consegnare valigette piene di contanti o scambiare prigionieri. Nel 1998 l’oligarca russo Boris Berezovskij pagò di tasca propria un milione e mezzo di dollari per far rilasciare due operatori umanitari inglesi sequestrati in Cecenia; le autorità britanniche, naturalmente, negarono qualsiasi coinvolgimento nella faccenda. Eppure, due anni dopo, quando Berezovskij entrò in rotta di collisione con il neoeletto presidente russo Vladimir Putin, fu alla Gran Bretagna che chiese aiuto, e fu la Gran Bretagna che gli offrì asilo politico. Più recentemente, quando l’ostaggio americano Peter Theo Curtis è stato rilasciato dal Fronte Al Nusra (i rappresentanti ufficiali di Al Qaeda in Siria), la versione ufficiale è stata che funzionari qatarioti avevano convinto i terroristi a rilasciare Curtis come “gesto di buona volontà”, per marcare la differenza con l’Is. Nessuna somma di denaro, si sono affannati a ripetere tutti, era stata pagata. Non importa che cosa sia successo veramente: il punto è che un ostaggio americano è tornato a casa attraverso una trattativa, senza che la linea dura ufficiale degli Stati Uniti venisse significativamente messa in discussione.
C’è un ultimo punto da sottolineare, di importanza ben più cruciale. Quando, la scorsa primavera, l’Is ha assassinato l’unico ostaggio russo nelle sue mani, Sergej Gorbunov, dopo che le autorità di Mosca avevano rifiutato di pagare il riscatto, l’opinione pubblica, sia in Russia che nel resto del mondo, ha beatamente ignorato l’evento o non lo è proprio venuta a sapere. Ma quando è stato ammazzato James Foley, i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna (che nonostante ripetuti avvertimenti sulle “linee rosse” da non oltrepassare fino a quel momento si erano ripetutamente rifiutati di intervenire nel conflitto siriano) sono stati di fatto trascinati nella loro terza guerra in Medio Oriente in tredici anni.
Non voglio addentrarmi, in questa sede, in una discussione sui “pro” e i “contro” di questa guerra: voglio semplicemente far notare che è stata una decisione che i nostri governi hanno preso con grandissima riluttanza, sotto la pressione dell’opinione pubblica. Perché nei Paesi democratici, nel bene o nel male, non sono solo i singoli individui a essere presi in ostaggio, ma in un certo senso l’intera società: e i governi democratici, che gli piaccia o meno, non possono non tenerne conto. L’Is sapeva benissimo quello che faceva quando ha ucciso Foley e gli altri; e la nostra reazione con ogni probabilità è esattamente quella che il gruppo voleva. Per Obama e per Cameron, il costo politico della morte dei loro ostaggi si è dimostrato molto più alto di quello di una soluzione negoziale, di qualsiasi genere. Quando la politica che adotti consente ai tuoi nemici di dettarti le decisioni, specialmente in materie di cruciale importanza come la guerra, forse è il caso di rivedere quella politica.
(Copyright Jonathan Littell 2014 Traduzione di Fabio Galimberti)