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 2014  settembre 13 Sabato calendario

La scuola che (non) vorrei. Intervista a Paola Mastrocola

Togliamo il disturbo. Nel 2011, Paola Mastrocola, torinese, classe 1956, scrittrice di libri deliziosi, spesso popolati di animali, pubblicò per Guanda questo saggio sulla scuola, una scuola che non insegnava più. Ne parlava a ragion veduta, dividendo le sue giornate fra la scrittura e la docenza in un liceo scientifico della cintura torinese, carriera intrapresa dopo aver lasciato quella universitaria. «Beh, lì mi han fatto fuori», precisa, ridendo, al telefono.
Nella incipiente riforma renziana della scuola, Mastrocola ci finirà dentro. Un buon motivo per chiederle che cosa ne pensi.
Domanda. Professoressa, che ne pensa della #buonascuola prossima ventura?
Risposta. Ho difficoltà a chiamarla riforma, non vedo nulla che abbia a che fare con questa parola, né tanto meno con la parola «rivoluzione», che talvolta sento pronunciare. Ecco, io avrei un’altra idea del significato di questi termini.
D. Andiamo per ordine, cosa non va?
R. Cominciamo col dire che è una continuazione bella e buona della scuola precedente.
D. Che non le piace...
R. È una scuola che, da anni, vuole adeguarsi all’utenza, famiglie e ragazzi, che chiedono solo, perlopiu, una scuola di intrattenimento.
D. Oddio, l’entertainment pure qui, a scuola...
R. Sì, si tratta di intrattenere serenamente i ragazzi e, semmai, di prepararli al lavoro.
D. Beh, questo è un bene, no?
R. No, male, malissimo, perché significa una scuola utilitaristica e non di cultura. La cultura non è mai finalizzata, non pensa un utile immediato, concreto. Il latino, la filosofia, l’algebra sono astratte, non concrete. Non c’è utilitarismo nello studio di Orazio.
D. Quindi non proprio buona, questa scuola riformanda...
R. Diciamo che non si cura affatto dell’aspetto culturale, anzi! Faccia caso: non un cenno alla parola cultura, o studio, o libri. Una vera rivoluzione sarebbe reintrodurre il latino alle medie inferiori e l’abolizione del valore legale del titolo studio, per esempio, non trova?
D. Il latino? Ma se Adolfo Scotto di Luzio col suo La scuola che vorrei (Bruno Mondadori) ci ha spiegato che abbiamo fatto strame del liceo classico, spina dorsale della nostra cultura umanistica...
R. Gran bel libro, quello. E in effetti c’è un calo spaventoso di iscrizioni al classico. La gente vuole il liceo, ma senza latino. Meno che mai il greco. Sono ritenute materie inutili, e per giunta difficili e faticose. Non servono, e tolgono la spensieratezza ai nostri poveri pargoli... Così i licei, pur di attrarre i ragazzi, sono disposti a ridurre il latino, e anche a farlo fuori. Allo scientifico ormai è impossibile arrivare davvero a insegnare a tradurre. Da quattro ore settimanali si è passati a tre, e in più i ragazzi non hanno le basi, in prima liceo dobbiamo ricominciare dall’analisi logica. Tutto daccapo, persino le preposizioni, gli avverbi, tale è il livello di impreparazione con cui arrivano.
D. E quindi figurarsi di tradurre Tacito...
R. Anche perché, se diamo una versione a casa, loro se la scaricano da Internet... Perché dovrebbero fare la fatica di provarsi davvero a tradurre? E così, perdono l’occasione di esercitare il cervello. Hanno più tempo per stare su Facebook o whatsapp, però. E vengono promossi ugualmente. Un vero capolavoro!
D. Torniamo alla nostra riforma che per lei non è tale. Cos’altro non va della scuola attuale, che quel provvedimento non cambia?
R. Avrebbe dovuto dire basta con la certificazione delle competenze. Tornare alle conoscenze, ridare valore al sapere e non solo al cosiddetto saper fare. Guardi, proprio oggi, vengo da un collegio docenti e non si parla che di corsi di recupero, di preparazione ai test e di competenze. È la scuola voluta dall’Europa, lo so. Ma è una scuola che a poco a poco insegnerà solo a passare i test, non a pensare, a scendere nel profondo, a studiare lasciando che le parole, le idee, entrino in noi e ci facciano diventare persone migliori. Bisognerebbe reagire, farla noi insegnanti, una bella rivoluzione.
D. Lei dice che la riforma è solo la continuazione della scuola attuale, tuttavia alcune novità ci sono, come l’informatica introdotta sin nella primaria...
R. Insegnerei prima a parlare e scrivere. Sa, nessuno lo sa più fare. Almeno i due terzi dei ragazzi che arrivano al liceo, è questo che osserviamo noi. Ci vorrebbe un bel potenziamento della grammatica, alle elementari. Però l’informatica è più glamour, senza dubbio... Inoltre informatica, in senso proprio, sarebbe saper programmare con linguaggi evoluti: siamo sicuri che sarà questo, e non semplicemente smanettare su un computer anche a scuola?
D. E la digitalizzazione dei supporti, i tablet sui banchi?
R. Guardi, questa cosa della digitalizzazione è singolare. Siamo già totalmente digitalizzati! E ci piace da pazzi, per carità, va benissimo. Ma appunto per questo mi chiedo: perché la scuola non potrebbe essere l’unico luogo non digitalizzato della nostra vita? Se anche la scuola abbandona i libri, non ne esisteranno più da nessuna parte. Ci vogliamo arrogare il diritto di distruggere millenni di civiltà cartacea? Ma perché mai? Dobbiamo puntare a una serena e proficua convivenza, tra i libri e il web. Non fare che il web si mangi i libri, in nome di una assurda devozione al Nuovo!
D. Beh, una scrittrice come lei sarà mica contraria agli ebook?
R. Non me ne importa niente del supporto su cui leggiamo, foss’anche l’aria o il tronco di un albero, il problema è che i ragazzi non sono più in grado di comprendere le frasi che leggono e nessun ministro se ne sta interessando. Siamo davanti alla scomparsa dello studio, della capacità di stare su un testo complesso. C’è un gravissimo problema logico-cognitivo, di cui nessuno parla, nessuno si occupa. E infatti c’è un tasso di abbandono preoccupante: tanti entrano all’università ma pochi ne escono. Come mai? Si perpetuano le disastrose scelte che, a partire delle elementari, buttano tutto sul gioco, sull’intrattenimento, mentre della struttura logica e cognitiva non importa. Ma così facendo si fa soprattutto il danno delle classi basse e non è facendo informatica che si dà supporto ai figli dei meno abbienti, tutt’altro, così li affossiamo.
D. Perché, professoressa?
R. Perché ce la farà il figlio di papà, che troverà le relazioni giuste e le scuole d’élite all’estero. Ma gli svantaggiati, a cui diamo solo una preparazione superficiale (molto moderna, sì, fatta di inglese, informatica e bellissime lavagne elettroniche), loro non ce la faranno. Bisognerebbe fare il latino e l’algebra, a tutti, per una vera scuola di massa che volesse davvero, elevarla, la massa, e non solo blandirla per ottenerne il consenso elettorale.
D. Si parla di ampliare l’inglese.
R. L’inglese va benissimo, ci mancherebbe, dipende a scapito di cosa va. Anche economia al liceo, va benissimo, ma come vede sono scelte che puntano sempre all’»utile» immediato. Cosa togliamo, un po’ di letteratura magari? Tanto la cultura umanistica non interessa più a nessuno. O togliamo qualche ora di grammatica? Lo sa che noi ormai, in prima liceo, insegniamo ortografia?
D. Oddio... Sono i nostri figli, devastati prima dagli sms e ora da whatsapp...
R. C’è chi dice che va bene così. Che sono nuove capacità!
D. Senta, però sveliamo chi ha cominciato la scuola dell’intrattenimento? Diamo la colpa a qualcuno?
R. Non ho nessun problema a dirlo, anzi l’ho pure scritto: tutto inizia con l’antinozionismo predicato col ’68. Ma che importanza ha, si diceva, sapere quando è nato Giuseppe Garibaldi. E da lì in poi, la degradazione è stata crescente. Sa che alcuni dei nostri ragazzi di liceo non sanno dov’è Parigi?
D. Oibò...
R. Le giuro. Però oggi si fa teatro, educazione alla legalità, educazione stradale, alimentare, sessuale, si imparano i diritti umani, vorrai mica fare un po’ di geografia? Non è glamour, non è trendy...
D. Parte della #buonascuola prevede anche un’infornata di nuove assunzioni, spesso di insegnanti precari. Che idea se n’è fatta?
R. Direi che è un aspetto preponderante della riforma Giannini-Renzi. Va benissimo. Hanno puntato ad argomenti che abbiano un impatto sindacale e sociale (spero solo che trovino i soldi...). Ma, ripeto, nessun interesse alla sostanza culturale dell’istruzione. Nessuna idea di scuola, ecco.D. Ma qualcosa che la convince c’è?
R. Sì, il capitolo che riguarda l’alternanza scuola-lavoro negli istituti tecnici...
D. Lì sono aumentate anche le ore in azienda: 600 nell’ultimo triennio.
R. Ecco quella mi pare una cosa molto buona.
D. Perché, per tornare al suo saggio di un paio di anni fa, Togliamo il disturbo appunto, lei formula un’idea precisa: riportiamo serietà nella scuola dell’obbligo, ovvero sino ai 16 anni, e poi lasciamo liberi i ragazzi di scegliere, anche di fare i falegnami...
R. Esatto. Ci vorrebbe una grande scuola di base, dai sei anni fino ai 16: cinque di elementari e altrettanti fra medie e biennio delle superiori, ma di istruzione ad altissimo livello, che significa studiare latino, capire qualcosa di Dante e di Montale in modo da poter avere nella vita l’enorme felicità di leggerli, qualsiasi lavoro uno faccia. E poi, sapersi esprimere, saper dire compiutamente quel che si pensa. Dopodiché uno può scegliere lo studio astratto, ancora latino, greco, filosofia, matematica. Oppure anche di fare il falegname perché, magari andando a farsi un bell’Erasmus in Finlandia, a studiare i legni...
D. Mi pare di capire che le piaccia il modello tedesco, quello del doppio canale, scolastico e di formazione professionale.
R. Un modello che prenderei subito, ma in toto. In Germania, gli insegnanti della scuola media possono impedire a un certo studente di fare il liceo se non ne ha le capacità. Dipende dal curriculum e dai livelli raggiunti. Ci vuole un vero nulla osta per accedere agli studi,liceali.
D. Sprecheremmo meno risorse per ragazzi che non hanno un’attitudine e magari finiscono per abbandonare.
R. Non si dovrebbe forzare nessuno. Dovremmo pensare all’infelicità di certi ragazzi, costretti a fare per anni cose che non amano per niente.
D. Forse alla base del fenomeno dei Neet, dei giovani che non studiano né lavorano, che hanno abbandonato tutto, ci sono anche scelte scolastiche sbagliate...
R. Questa connessione c’è ed è una tragedia. Perché non indirizziamo più i giovani e non diamo loro alternative: la scuola professionale è di livello troppo basso, certi ceti sociali non rinunciano al liceo. I loro figli non han voglia di studiare, però. Dipendesse da me, spariglierei le carte: in modo che anche il figlio del grande professionista possa scegliere di fare una scuola tecnica o professionale, senza che la sua famiglia si senta sminuita... Ma parliamo, qui sì, di grandi rivoluzioni, del costume, della mentalità di un popolo!
D. Ma oggi permettiamo che si vada a scuola senza studiare?
R. Sì, certo. Di fatto sì. Oggi un ragazzo può arrivare in quinta ignorando completamente anche due materie importanti, perché non si può bocciare con due insufficienze, e allora alla fine, tra corsi di recupero e giudizi sospesi a giugno e risolti a settembre, si assegnano dei «sei» d’ufficio. Il problema è che quello studente pagherà quelle carenze in seguito.
D. Ci sarebbero alternative?
R. Aboliamo il valore legale del titolo e certifichiamo i livelli di preparazione effettiva se raggiunti. Così tutti escono, non si boccia più, ma troveranno lavoro in base ai livelli raggiunti.
D. Ma se non bocciamo, come facciamo a spingerli a studiare?
R. Significherebbe favorire la responsabilità individuale, degli studenti e dei genitori. Faremmo fuori in un colpo il vittimismo dilagante fra i giovani, per cui è sempre colpa degli altri o del sistema. Sarebbe una molla potente, mi creda, capire che siamo noi a determinare il nostro futuro.
D. Lei ha scritto tanta bellissima narrativa, in cui spesso gli animali sono protagonisti. Il presidente del consiglio, per descrivere gli ipercritici, usa il paragone col gufo. Lei che animale si sente?
R. Mi sento molto talpa: vivo sottoterra, invisibile, inessenziale.
D. Mica il tragico sottosuolo dostojevskiano?
R. No, è un mondo di studiosi di latino, poeti, attori, scultori. Gente molto... inutile! Ma è allegrissima l’Italia delle talpe.
D. Professoressa boccia anche lei Matteo Renzi?
R. Ma guardi che lui volle presentare il mio «Togliamo il disturbo», a Firenze, quand’era sindaco, e gli piacque molto quel libro. Quindi nutro ancora forti speranze.... Mi domando solo dove sia finito quel Renzi che conobbi. Capisco che condurre un Paese sia difficile, però...