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 2014  ottobre 17 Venerdì calendario

Ritornare sulla Via della Seta


Il vertice Europa/Asia di Milano ricorda che l’Italia, antico terminale della Via della Seta, può tornare ad esserlo.
Può diventare uno snodo importante fra l’Asia nuovamente centrata sulla Cina e l’Europa atlantica.
Due secoli fa il principe della diplomazia asburgica Klemens von Metternich definiva l’Italia una mera espressione geografica. Quella di Metternich era una considerazione aspra sulla marginalità dell’Italia nelle dinamiche di potere del vecchio continente. Oggi non è esattamente così: per l’Italia la «vendetta della geografia» di cui scrive Robert Kaplan è fonte di problemi, ma anche di opportunità.
Per l’Europa nel suo insieme, riuscire a competere con successo in questa seconda fase della globalizzazione contemporanea (in cui sono i consumi, più che la produzione, a spostarsi verso Est) è decisivo. Se davvero fossimo entrati in un ciclo di stagnazione prolungata (demografia e trappola della liquidità fanno parlare addirittura di «stagnazione secolare») il legame con il dinamismo asiatico diventerebbe essenziale. E il pivot dell’Asia-Pacifico è ormai la Cina, nonostante i tentativi del Giappone di scuotersi di dosso la sua vecchia sindrome depressiva. Quindi ok agli investimenti cinesi, con tutte le avvertenze/cautele del caso e sapendo che la crisi dell’euro non lascia in fondo grandi alternative.
Esistono però due avvertenze importanti. Una riguarda l’Europa, che continua a vedere la relazione con la Cina come una relazione puramente economica e commerciale. Quel che Metternich pensava dell’Italia di ieri rischia di valere per l’Ue di oggi. Gli Stati Uniti guardano all’Asia, invece, in una logica strategica e concepiscono la relazione con Pechino ponendosi il problema di un futuro «contenimento». Lo dimostrano sia le alleanze militari degli Stati Uniti che l’impostazione del negoziato commerciale americano con l’area del Pacifico, che esclude appunto la Cina. Esiste quindi un rischio preciso, di cui l’Europa deve essere consapevole: data questa differenza di approccio, le relazioni con la Cina potranno nel tempo diventare un elemento di divisione dell’Occidente. O forse il vero elemento di divisione, più di quanto non potrà mai essere la Russia, che appare comunque una potenza regionale in declino e che non vorrà o riuscirà, io credo, a stabilire un vero asse con Pechino.
L’implicazione di questo scenario è che la conclusione del Ttip – il negoziato sul commercio e gli investimenti fra Europa e gli Stati Uniti - ha un’importanza maggiore di quanto non dicano le resistenze settoriali, sia in America (dove le scadenze elettorali giocano a sfavore di un accordo rapido), sia fra gli europei. La posta in gioco deve essere chiara a entrambe le parti: il Ttip è un accordo sul futuro dell’Occidente nel mondo del disordine globale. Lo scarto fra la strategia asiatica degli Stati Uniti e il «mercantilismo» europeo finirà per dividerci, se non verrà moderato da un nuovo patto economico fra Stati Uniti ed Europa.
Qui si aggiunge una seconda avvertenza, per l’Italia: la sua ritrovata centralità geografica equivale, in questo momento, a delicatezza geopolitica; e si somma alla nostra vulnerabilità economica. In queste condizioni, evitare una spaccatura fra Atlantico ed Eurasia è per l’Italia decisivo. Il nostro Paese rischia in effetti di essere, più che un crocevia, un incrocio pericoloso.
Sulla nostra penisola, economicamente ancora dominata dai rapporti intra-europei, si scarica oggi l’impatto congiunto di quattro fattori esterni: i flussi di persone vengono principalmente dall’Africa; il gas viene anche e soprattutto dalla Russia (oltre che dal Mediterraneo); nuovi investimenti finanziari vengono dalla Cina; la protezione militare viene ancora largamente dagli Stati Uniti.
Africa, Russia, Cina, Stati Uniti. L’Italia non è solo sovra-esposta verso Est e verso Sud (dopo il crollo del vecchio ordine europeo e dei vecchi regimi mediterranei); è in sé un Paese di faglia. Di faglie, anzi. E ha alle spalle un’Europa che un tempo funzionava come vincolo ma anche come antidoto a collocazioni troppo incerte; oggi appare soprattutto un vincolo, che in qualche modo l’Italia è anzi spinta a forzare, sotto l’impatto della crisi economica, cercando sponde esterne. In una sorta di circolo vizioso, quanto più l’Europa di centro guarda con diffidenza alle fragilità dell’Italia, tanto più le faglie si allargano.
Gestire un incrocio rischioso del genere non è affatto facile. Un alto tasso di pragmatismo è la soluzione possibile oggi; in futuro verrà messa alla prova.