Corriere della Sera, 17 ottobre 2014
La finanziaria spiazza la sinistra. Se per Fassina è «iniqua», per Bersani «c’è del buono»
Doveva essere la madre di tutte le battaglie della minoranza del Partito democratico. Dopo aver deposto l’ascia di guerra sul Jobs act e aver votato la fiducia al governo, l’area che non si riconosce in Matteo Renzi si era ripromessa di spostare il terreno dello scontro sulla legge di stabilità.
Di più, aveva annunciato che lì avrebbe fatto ballare il governo. Ma adesso anche questa operazione è diventata più difficile. Certo, c’è sempre Stefano Fassina che, coerente con se stesso, non molla la presa, e bolla la manovra come «iniqua e non di sinistra», ma gli altri appaiono ben più cauti e un po’ spiazzati. E la cosa ha del sorprendente perché nello stesso giorno, ossia il day after del Consiglio dei ministri che ha varato la legge di stabilità, si rincorrono le voci più disparate.
Si torna a parlare di possibili elezioni in primavera. Sono gli stessi renziani a farlo, pur premettendo che il capo non è di questo avviso e che «solo in caso di sondaggi in controtendenza» potrebbe giocare d’azzardo usando le consultazioni come «un referendum su se stesso».
E si torna a parlare di scissione: se ne discute nei corridoi della Camera dove, invocando l’anonimato, dalemiani e bersaniani di stretta osservanza scommettono su questa ipotesi, anche se ammettono che potrà realizzarsi solo quando Giorgio Napolitano andrà via dal Quirinale.
Eppure è proprio in questo quadro quanto mai confuso che la minoranza non ha imbracciato il fucile per impallinare (ovviamente in senso metaforico) la manovra del premier. Anzi c’è dell’imbarazzo. E c’è chi vorrebbe stoppare coloro che sono andati troppo avanti nella guerra contro Matteo Renzi.
Un esempio? Il ministro bersaniano Maurizio Martina che dice chiaramente di non condividere «le critiche di Fassina»: «Stefano deve riflettere, perché in questa manovra ci sono delle scelte molto importanti». E il lettiano Francesco Boccia, che non è mai tenero con il presidente del Consiglio, questa volta afferma: «Io tifo perché questa manovra sia espansiva».
Ma il commento più incredibile, lontano dai taccuini dei cronisti è quello di Pier Luigi Bersani. Il quale ha molto da rimproverare al suo successore (e tanto da recriminare), però quando chiacchiera liberamente sugli scranni della Camera, senza avere giornalisti ai quali regalare una battuta a effetto, ammette: «Per quello che si capisce la legge di stabilità ha delle cose buone, certo dobbiamo vedere le carte...».
Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio, alle prese con il Jobs act, guarda le «ombre» ma anche le «luci» di questa manovra e non sembra affatto intenzionato a dar battaglia su questo terreno.
L’ex (?) dalemiano Gianni Cuperlo non riesce a non ammettere che questa sia «una manovra espansiva». E quindi non può proprio essere bersagliata come una legge di stabilità stile Thatcher. Perciò preferisce farsi scudo della rivolta dei governatori delle Regioni, anche se, da politico raffinato, capisce dove può andare a parare tutta questa storia: «Renzi giocherà sul senso Fiorito». Ossia sullo scarso credito di cui godono le Regioni dopo gli ultimi scandali.
Riflessione azzeccata, almeno a sentire quello che il premier dice ai fedelissimi: «Gli sprechi delle Regioni sono sotto gli occhi di tutti gli italiani».