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 2014  ottobre 16 Giovedì calendario

Il dubbio di Mariella Gramaglia, scomparsa a 65 anni: «Siamo state eroine del femminimso e cattiove educatrici di figli maschi?»

Se per ogni donna ancor più che per ogni uomo è tuttora vero quel che scrisse Emily Dickinson, «non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo costretti ad alzarci, e ad esser fedeli alla nostra statura», per Mariella Gramaglia farsi trovare sempre all’impiedi è stata la condizione naturale di tutta una vita. È appena scomparsa, travolta negli ultimi mesi da una malattia non battibile, eppure l’ultimo fuoco era divampato solo l’anno scorso, ben prima quindi della banalità dei selfie, delle ragazze di oggi che si fotografano e twittano: «Non ho bisogno del femminismo, perché....», ed era stato un fuoco perfettamente alla sua altezza.
I primi bagliori erano iniziati per lei negli Anni Settanta e sono diventati braci in un libro, Fra te e me, di pensieri passioni e femminismi, un dialogo intransigente e serrato con la figlia Maddalena Vianello, avuta come pure Michele dall’economista Fernando, che fu allievo di Paolo Sylos Labini. Madre e figlia, un punto d’arrivo e un punto di partenza sul «concretismo femminile», quel che per Gramaglia era il femminismo. Nello scambio epistolare Maddalena scrive «le donne della tua generazione sono partite con il machete per affrontare la giungla, e la giungla si sta riprendendo quel che le è stato sottratto». Mariella risponde con la consapevolezza di quel femminismo di lotta, colto, aristocratico, che poteva apparire perfino élitario e che forse s’è fermato al suo Piave, ma è rimasto capace di fulminare la realtà: «Siamo state eroine del femminismo, e cattive educatrici di figli maschi?». Forse sì, sembra rispondere la figlia, «perché eravate separatiste».
La generazione di Mariella era infatti - e però - quella delle Luisa Muraro, delle Silvia Vegetti Finzi, delle Chiara Saraceno, delle Bia Sarasini, delle filosofe, psicoanaliste, studiose della società che negli Anni Settanta iniziarono a teorizzare anche in Italia il pensiero della differenza, e che nel corso del tempo di certo non a quello si sono fermate. L’intera storia di Mariella Gramaglia lo racconta, e niente può descriverlo meglio di quel che di sé lei stessa ha scritto. «Sono nata a Ivrea e mi sono laureata in Filosofia nel 1972. Tra Palazzo Campana, Mirafiori, Vanchiglia e Palazzo Nuovo ho visto molte albe lungo i viali e sotto i portici, quando Torino era fiammeggiante di molte passioni, ma non ancora swinging. Poi Roma e il femminismo, la grande scoperta della mia vita: quando i cuori delle donne hanno cominciato a cantare solo quando ne avevano voglia loro».
Il femminismo, cioè una grande passione civile e politica praticata anche attraverso il giornalismo, in anni recentissimi anche sulla «Stampa» da dove nel suo ultimo editoriale aveva salutato con ottimismo le cinque renziane capilista alle europee: il Manifesto, la Rai, infine la direzione di quel «Noi donne» che negli Anni Settanta era stata patria delle «emancipazioniste» avverse proprio delle «separatiste», delle teoriche della «liberazione» e alla cui direzione Gramaglia arriva a metà degli Anni Ottanta, quando le cose si sono non poco rimescolate. Ma ancora, il Parlamento per la Sinistra Indipendente, la nascita del Pds dalle ceneri del Pci. E tredici anni al Comune di Roma, prima in punta di piedi con la giunta Rutelli, poi con Walter Veltroni da assessore alle Pari Oppurtunità e alla Semplificazione dove inventa lo 060606, il centralino full time che funziona come un giornale con 60 redazioni distaccate, da cui nasce poi per filiazione il numero unico per i taxi 060609. Ed è lì che chi vuole può capire cosa vale e a cosa approda quel che oggi sembra diventato un epiteto, «una femminista»: «La consapevolezza vissuta che i diritti dei cittadini non si esercitano solo una volta ogni 5 anni col voto, ma sono il sale della democrazia ogni giorno. E che la loro dignità, la loro uscita dal ruolo di sudditi o di clientes, è uno straordinario valore per cui impegnarsi». Già allora, pensava a cosa doveva diventare la pubblica amministrazione, ai diritti dei cittadini e delle piccole impresa, e a usare l’unica arma possibile: la trasparenza.
Da assessore, metteva tutto su Internet. E con ciò a un certo punto «la Gramaglia», come tutti a Roma la chiamavano, vede stretto il limbo italiano di civiltà e arretratezza, e a maggio 2007 lascia Roma per l’India. «Io sono stata femminista fin dalla prima ora, le più belle battaglie della mia vita sono state quelle legate ai diritti, alla laicità, all’autodeterminazione delle donne, ora mi infilo in un partito con tutti quei cattolici forsennati, ma dove vado? Dove vado… Vado in India!», disse a Gianni Saporetti di Una città. A lei che credeva che la Chiesa dovesse «chieder scusa alle donne come ha fatto con Galileo», sembrò all’improvviso «ridicolo, un orrore» diventare «un notabile», ma non fu una fuga l’impegno con la comunità sindacale Sewa del Gujarat. Ne nacque anche un libro, IndianaNel cuore della democrazia più complicata del mondo. Poi il rientro in Italia, e ancora il giornalismo alla «Stampa». Sempre sui temi del «concretismo femminile». Sempre con il sorriso sulle labbra anche «nella lunga stagione di odio per le donne e di dimensione scurrile del discorso pubblico» che fu il berlusconismo. Un femminismo come passione umana e civile, strumento per conoscere e amare se stesse e le proprie simili, e potersi meglio aprire al mondo. Di certo, se lassù Emily Dickinson incontrasse Mariella Gramaglia, non le dispiacerebbe affatto.