15 ottobre 2014
Accordi con le aziende italiane per 8 miliardi, shopping di marchi storici del made in Italy, le mani sul leggendario Waldorf Astoria di Manhattan: la Cina spende e compra in tutto il mondo. Restano i problemi con la democrazia. «Non esistono valori universali», la risposta di Pechino
Otto miliardi di dollari, per il momento almeno. Perché, in futuro, potranno essere molto di più. È il valore degli accordi firmati ieri in serata, come da copione, dai premier Matteo Renzi e Li Keqiang a Palazzo Barberini dove si è riunito il direttivo del Business forum gestito, per parte italiana, da Confindustria e Ice [Rita Fatiguso, S24 15/10].
Gli ultimi arrivati, ieri, sono un accordo fra Cassa depositi e prestiti e China Development bank, del valore di circa 3 miliardi di euro. Uno fra Finmeccanica e il gruppo cinese Baic, per la fornitura di 50 elicotteri. Un’intesa fra Enel e Bank of China. Un progetto di collaborazione fra il Gse, il Gestore dei servizi energetici e la provincia dello Zhejiang, che coinvolge venti aziende tricolori. Un altro fra il Fondo Strategico Italiano e il suo omologo cinese, il potente Cic International: operazioni di investimento comune del valore massimo di 500 milioni di euro [Marco Galluzzo, Cds 15/10].
Nella sua visita in Italia in occasione del vertice tra i leader europei e asiatici, il primo ministro cinese Li Keqiang difficilmente riuscirà a dissipare la sensazione di essere considerato come una specie di portafogli ambulante. Sin dai tempi di Giulio Tremonti iniziarono i viaggi della speranza in Cina degli alti papaveri ministeriali in tenuta da piazzista che peraltro riuscirono a strappare solo qualche elemosina. Oggi però la situazione è mutata. Esiste persino un sito web (www.vendereaicinesi.it) interamente dedicato alla vendita diretta ai cinesi (inclusi gli oltre 300 mila residenti in Italia) di beni, immobili, servizi, attività commerciali, aziende e quant’altro [Fabio Scacciavillani, Fat 15/10].
Ma su Internet passano le transazioni di piccolo taglio, mentre gli arieti finanziari della Cina sono i fondi sovrani, le grandi imprese pubbliche e la banca centrale, conosciuta in occidente come la People’s Bank of China. Sono questi giganti, che gestiscono oltre 2 trilioni di dollari di riserve valutarie accumulate nei decenni dell’impetuoso miracolo economico, a solleticare le perverse fantasia finanziarie del governo italiano, i sogni proibiti di banche dal capitale esangue e le speranze di imprese in perenne crisi di liquidità [Fabio Scacciavillani, Fat 15/10].
Chiamarlo shopping finanziario sarebbe errato. Investimento economico di lungo periodo riduttivo. In altri Paesi sarebbe impossibile, o molto difficile, trovare un investitore estero (nel nostro caso la State Grid Corporation of China) che controlla il 35% della società che a sua volta controlla la rete elettrica e del gas (Cdp Reti) [Marco Galluzzo, Cds 15/10].
L’Italia qualche mese fa ha detto di sì, secondo alcuni suscitando malumori americani, di sicuro aprendo le porte di asset strategici (rete energia elettrica, rete gas) all’enorme capacità monetaria della Repubblica Popolare e soprattutto al suo modo di investire: nelle prime aziende di un Paese, ma anche in società (dove Pechino nominerà propri consiglieri di amministrazione) che per core business sono pezzi «sensibili» degli interessi economici di uno Stato. La Cdp scaricherà un po’ del debito che negli anni il Tesoro le ha accollato, i cinesi avranno voce in capitolo in delicate scelte di sviluppo del nostro Paese [Marco Galluzzo, Cds 15/10].
Secondo il database della Heritage Foundation che monitora le grandi acquisizioni cinesi nel mondo (quantomeno quelli di cui viene data notizia), dal 2008 – quando si è registrato il primo investimento sostanziale, 250 milioni di dollari in una società immobiliare – al 2013 la Cina ha condotto operazioni in Italia per un totale di 3,6 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra alquanto modesta se paragonata a quelle investite nello stesso arco di tempo nel Regno Unito (18 miliardi di dollari), in Australia (60 miliardi), in Nigeria (20 miliardi), in Brasile e in Canada (30 miliardi ciascuno) [Fabio Scacciavillani, Fat 15/10].
Tuttavia nel 2014 è arrivata una ventata di attivismo decisamente inaspettato. A febbraio Krizia è stata acquistato da un gruppo privato di Shenzen per una cifra imprecisata. A marzo il braccio operativo della Banca centrale cinese la State Administration of Foreign Exchange (SAFE) ha acquistato il 2 per cento di Eni e il 3 di Enel per un totale di 2,7 miliardi di dollari, seguito a maggio dalla Power Construction Group che ha inglobato il 40 per cento di Ansaldo Energia per 560 milioni di dollari. Infine il filotto estivo: in pochi giorni tra fine luglio e inizio agosto, la Consob ha ricevuto comunicazioni che la People’s Bank of China aveva superato il 2 per cento del capitale di blue chip come Generali, Telecom Italia, Fiat, Prysmian, mentre il gestore della rete cinese State Grid ha investito 2,1 miliardi di euro in Cdp Reti (la holding che controlla Snam e Terna, il cuore del sistema energetico italiano) [Fabio Scacciavillani, Fat 15/10].
La Cina è diventata in questi anni un partner commerciale molto importante per l’Italia. Nel 2013 il nostro Paese ha esportato verso Pechino beni per 9,8 miliardi di euro. E la Cina è ormai saldamente il secondo mercato dell’Italia tra i Paesi Asem extra-Ue, subito dopo la Russia. Ma se con quest’ultima l’Italia presenta un deficit bilaterale che, nonostante il nostro vivace export, è generato dall’imponente import di energia, con la Cina il deficit italiano, che nel 2013 è stato di ben 13,3 miliardi di euro, origina soprattutto da uno sbilancio nei manufatti [Marco Fortis, S24 15/10].
Solo se aumenterà il numero di Pmi italiane pronte a lavorare in Cina in modo organizzato e non improvvisato o occasionale, a dotarsi di export manager dedicati, a collaborare anche attraverso il meccanismo delle reti di impresa in iniziative produttive e commerciali, la Cina aprirà definitivamente all’Italia le porte del suo immenso potenziale di mercato e finirà di essere per noi una sorta di partner incompiuto [Marco Fortis, S24 15/10].
Intanto il nipote di Deng Xiaoping, legato al partito comunista cinese, sta per comprarsi il Waldorf Astoria, il leggendario albergo di Manhattan. L’allarme è stato lanciato dalla rappresentanza permanente (l’equivalente di un’ambasciata) degli Usa all’Onu [Federico Rampini, Rep 15/10].
Oltre a una chiara questione di immagine, c’è anche un aspetto legato allo spionaggio. La transazione, perfezionata lo scorso 6 ottobre, prevede la cessione del Waldorf al colosso assicurativo del Dragone, Anbang Insurance Group, che ha rilevato l’hotel da Hilton Worldwide per una cifra di 1,95 miliardi di dollari. Secondo i termini dell’accordo però Hilton continuerà a gestire il gioiello su Park Avenue per i prossimi cento anni, e prevede al contempo «una profonda ristrutturazione» della società. Ed è proprio questo «lifting» a preoccupare maggiormente le autorità americane che temono possa nascondere una massiccia offensiva di spionaggio fatto di intercettazioni e altre forme di sorveglianza [Francesco Semprini, Sta 15/10].
Il Waldorf Astoria ha ospitato tutti i presidenti americani da Franklin Roosevelt in poi, nonché Marilyn Monroe e il generale MacArthur. Ha inventato per primo il “room service”, la colazione in camera. Gli chef dei suoi ristoranti ispirarono una canzone di Cole Porter, Your’re the Top (1934) [Federico Rampini, Rep 15/10].
Come i suoi predecessori, Barack Obama alloggia in una suite del Waldorf al 301 di Park Avenue quando è in visita a New York. Bill e Hillary Clinton vi hanno organizzato le conferenza della loro Fondazione, con tanti leader stranieri come ospiti. Durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite, che si tiene ogni anno a settembre e richiama al Palazzo di Vetro duecento capi di Stato e di governo, molti statisti vengono alloggiati proprio al Waldorf [Federico Rampini, Rep 15/10].
Venticinque anni dopo l’ultima grande richiesta di democrazia, repressa nel sangue sulla Tienanmen, la Cina si trova a fare i conti con un movimento che esige elezioni a suffragio universale e con candidati liberi. Il teatro della sfida questa volta è a Hong Kong, l’esito incerto perché tutti sperano che in un quarto di secolo i «saggi dirigenti» di Pechino, ora al timone della seconda potenza economica del mondo, siano diventati più lungimiranti, se non proprio tolleranti [Guido Santevecchi, Cds 15/10].
Anche se Xi Jinping non farà usare la forza nelle strade di Hong Kong, non c’è da illudersi su concessioni liberali. In primavera, quando ha visitato le istituzioni europee a Bruxelles, Xi ha spiegato con naturalezza: «Monarchia costituzionale, restaurazione imperiale, parlamentarismo, multipartitismo, presidenzialismo: abbiamo considerato tutti questi sistemi e li abbiamo provati, ma non hanno funzionato, ci hanno fatto rischiare la catastrofe» [Guido Santevecchi, Cds 15/10].
La Cina resta quindi nell’era dell’incontestabile ruolo guida del partito comunista. Questo ha detto Xi in pubblico. A porte chiuse, davanti ai compagni del Politburo, è stato più chiaro. Lo spettro per la nomenklatura cinese è sempre il crollo dell’Unione Sovietica. E il presidente ha ammonito: «L’Urss è caduta perché non c’è stato nessuno abbastanza uomo da levarsi in piedi per difendere il partito nel momento cruciale» [Guido Santevecchi, Cds 15/10].
Xi ha fatto anche circolare una direttiva per mettere in guardia i quadri che i «valori universali non esistono», sono solo il Cavallo di Troia dell’Occidente per indebolire la Cina. La polizia ha subito risposto arrestando personalità famose del Web che sui blog «diffondevano voci su valori universali». La campagna si è intensificata con l’ordine di attenersi alla «purificazione intellettuale», secondo i Quattro principi cardine: dittatura democratica del popolo; via socialista; guida del partito secondo il marxismo-leninismo; pensiero di Mao Zedong [Guido Santevecchi, Cds 15/10].