Corriere della Sera, 15 ottobre 2014
I tormenti di Bertinotti che dopo la sconfitta del marxismo adesso cerca risposte nelle Lettere di San Paolo
La prefazione di un libro di Fausto Bertinotti affidata al cardinale Gianfranco Ravasi sarebbe già una notizia in sé. Se poi il cardinale Ravasi confessa di aver trovato nelle pagine di questo Sempre daccapo (Marcianum Press) un vertiginoso «procedere dall’universale al particolare, dalle grandi sfide planetarie alle domande intime che artigliano la sua coscienza», allora l’interesse è vieppiù assicurato.
E Bertinotti non delude. Si macera su una sconfitta storica di dimensioni apocalittiche, ma cerca nuova linfa nel linguaggio della profezia religiosa. Si interroga sullo tsunami storico che ha travolto, insieme al comunismo reale, anche i pilastri costruiti da Karl Marx, ma non esita a riprendere come testo illuminante la Lettera ai Gàlati di San Paolo dove, spiega Bertinotti, si mette in crisi «l’assetto signorile» della società con queste parole radicali e irriducibili: «non c’è Giudeo, né Greco; non c’è schiavo, né libero; non c’è maschio e femmina». L’uguaglianza assoluta davanti a Dio, al di là delle incrostazioni contingenti della storia. Difficile immaginare l’inizio di un percorso politico, ma una drastica trasformazione nella dieta culturale di un leader politico che riflette sull’ampiezza di una sconfitta dolorosa, questo certamente sì.
«Procedere dall’universale al particolare», scrive dunque il cardinale Ravasi. E in effetti qualche volta sembra molto forzato in queste pagine il confronto tra le parole della politica, amare, sconfortate, ma pur sempre significative di un mondo piccolo e limitato, e l’afflato di Bertinotti per la riproposizione delle domande ultime e prime che danno senso alla vita e alla Storia. Difficile collegare il macerarsi sul significato ultimo del messaggio cristiano con le polemiche sulla presunta egemonia «liberista» e addirittura sul ruolo del comandante Marcos in Chiapas, delle cui imprese mirabolanti le cronache hanno tristemente smesso oramai persino di riferire.
Collegare insomma il transeunte di un’esperienza politica con l’immanenza extrastorica delle grandi questioni affrontate dalla religione e da quella cristiana in particolare.
Difficile, ma Bertinotti ci prova. Non che queste pagine evochino l’inizio di una conversione vera e propria (nemmeno il cardinale Ravasi forse se lo augurerebbe), ma danno il senso dell’inadeguatezza di parole oramai consumate. Fosse solo la riflessione su una sconfitta elettorale, di cui Bertinotti porta consapevolmente tutto il peso e tutta la responsabilità, saremmo alle solite recriminazioni sul destino cinico e baro e alla formulazione di un paio di ricette per risalire la china.
Bertinotti invece inscrive quella sconfitta in una più generale catastrofe storica della sinistra, e non solo di quella che si è riconosciuta nell’esperienza fallimentare del comunismo mondiale. Una sconfitta che a suo dire riporta indietro non di un secolo, ma di due, a quell’Ottocento che ha preceduto la formazione del moderno Welfare State e la nascita stessa del movimento operaio. Da qui la radicalità di una ricerca che oltrepassi le frontiere del pensiero tradizionale (a cominciare dalla dicotomia credente-laico, davvero poca cosa in confronto alle dimensioni di una storia che si è logorata). Da qui anche la rivendicazione di una storia stoltamente negletta nelle sfere ufficiali della sinistra.
Quello slancio generoso, socialista e cristiano insieme, che prima dell’ossificarsi nel Partito ha animato, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il formarsi delle cooperative, delle case del popolo, delle leghe, degli atelier, delle società di mutuo soccorso. Ma anche, sebbene Bertinotti non ne faccia riferimento, la formazione dell’Umanitaria a Milano, delle università popolari, delle organizzazioni del credito contadino e così via. Un modo di riconsiderare le tappe di una sconfitta e anche l’inizio di una rilettura delle cose «buone», dimenticate ma che sono forse la parte migliore di una grande storia. Dove c’è anche la rilettura di San Paolo, e una critica spietata a ciò che si è stati. «Sempre daccapo», come recita il titolo del libro .