La Stampa, 14 ottobre 2014
Al Baghdadi non è il primo a sognare un califfato a Baghdad. La cosa piaceva anche a Lawrence d’Arabia
Come andrà a finire l’Iraq neanche un indovino può prevederlo. Come il paese è nato invece lo sappiamo bene: nel maggio 1916, nel quadro dell’accordo Sykes-Picot (due esperti del Medio Oriente, uno inglese e l’altro francese) per la sistemazione degli interessi anglo-francesi nel Medio Oriente. Ma gli autentici inventori del nuovo Iraq erano due: T. E. Lawrence e Gertrude Margaret Bell, nata nel 1868, mancata nel 1926, figlia di un baronetto inglese, visitatrice instancabile appunto del Medio Oriente e agguerrita studiosa, autrice di raffinati libri, tra i quali spicca Safar-Nama.
Mi sembra il momento giusto per riscoprire Lawrence detto d’Arabia (appellativo che personalmente detestava), e non soltanto per il suo assoluto capolavoro, The Seven Pillars of Wisdom, I sette pilastri della saggezza, uscito nel 1926. Militare inglese attivo tra l’altro nei servizi segreti in Medio Oriente, archeologo di vaglia, e naturalmente scrittore, Thomas Edward Lawrence, nato nel 1888, «un ponte fra due culture», e in questa prospettiva un personaggio inquieto e tormentato. Se si vuole, la grandezza di Lawrence sta proprio nelle sue drammatiche contraddizioni. Mandato in Arabia nei ranghi militari della Gran Bretagna, ne fu gradualmente ma irresistibilmente conquistato. Pensate: già nel 1909, in Siria dove raccoglieva materiale per la sua tesi di laurea, e dunque prima della sua militanza, scriveva alla madre: «... Mi sarà difficile ridiventare inglese, qui ho abitudini arabe». Nel capitolo introduttivo dei «Sette Pilastri», Lawrence confessa quanto sia pericoloso sognare di giorno, perché si rischia di recitare il sogno a occhi aperti, per renderlo possibile. «E’ ciò che io feci», ricorda.
Ma il sogno non gli impedì affatto di comprendere limpidamente i termini drammatici, persino tragici, della situazione del Medio Oriente dopo la cacciata dei turchi, la spartizione dell’influenza tra Gran Bretagna e Francia, la decisione Balfour, nel 1917, di venire incontro ai sionisti consentendo l’emigrazione ebraica in Palestina, con la furibonda reazione, appunto, dei paesi arabi.
Già, il sogno. Lawrence sognava un impero ben diverso, a cui dedicare tutto se stesso, una vera e proprio costellazione di città quasi mitiche, tra le quali, naturalmente, occupava un posto privilegiato Baghdad. In questo modo, Lawrence cominciò a crearsi nemici, specie quando cominciò a scrivere sui giornali a partire dal 1920. Il 20 agosto di quell’anno, sul Sunday Times, parla di vero e proprio tradimento. «I comunicati da Baghdad sono in ritardo, non sono sinceri, sono incompleti... È una vergogna per la nostra storia imperiale, e potrà presto essere troppo tardi per una cura ordinata. Oggi, non siamo lontani dal disastro». Poco per volta, nel corso degli anni la figura di Lawrence entra nel mito, nella leggenda. Ma lui opera nella cruda realtà, una realtà che rinnega. Un giorno, invitato a una riunione a Buckingham Palace, si presenta vestito da arabo. Questa immagine è divenuta proverbiale grazie all’interpretazione di Peter O’Toole nel film di David Lean. Aveva combattuto a spada nuda contro i turchi, ma ora voleva, senza essere ascoltato nella miglior delle ipotesi, che un’autentica rivoluzione araba si concretizzasse. L’Iraq ne costituiva, per così dire, il gioiello, ma ecco riaffacciarsi il sogno, ecco il tormento di vivere una doppia personalità, che forse soltanto Gertrude poteva, almeno in parte, condividere.
Nasce così quella che è stata chiamata sindrome di Lawrence, che alla luce di quanto sta accadendo oggi si trasforma in un incubo.
Quasi per un segno del destino, Lawrence muore nel 1935 in un incidente motociclistico sul quale aleggia, ultimo suggello del destino, un margine di mistero. Aveva rivelato che l’esperienza araba lo aveva addirittura spogliato della sua personalità inglese. Come si troverebbe, oggi, a Baghdad assediata da Califfo Ibrahim?