Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 14 Martedì calendario

Si chiama “dispersione” e significa “ragazzi che dovrebbero andare a scuola e invece non ci vanno”. Sono decine di migliaia e ci costano decine di miliardi

Ogni anno spendiamo circa 115 milioni di euro contro la dispersione ma l’Italia resta uno dei Paesi dell’Ue dove i ragazzi abbandonano gli studi prima degli altri. I 115 milioni di euro sono la somma dei 55 milioni investiti dallo Stato sotto forma di progetti nelle scuole e dei 60 milioni che arrivano, invece, dal Terzo Settore, la galassia di associazioni, onlus e enti privati che da sola supera l’impegno pubblico.
Sono alcuni dei dati contenuti nella ricerca «Lost» che verrà presentata stamattina, promossa da WeWorld Intervita, dalla Associazione Bruno Trentin della Cgil e dalla Fondazione Agnelli in collaborazione con CSVnet e che si riferisce soprattutto a quello che accade in quattro città, Napoli, Milano, Roma e Palermo. 
Nello studio si prova a dare un’idea di quanto costi all’Italia perdere ogni anno decine di migliaia di ragazzi: tra l’1,4% e il 6,8% del Pil, vale a dire da 21 miliardi di euro a 106 miliardi di euro, a seconda della crescita del Paese. Eppure a partire dal 2007, come si ricorda nello studio, lo Stato ha investito 271 milioni di euro per la realizzazione di circa 5.600 progetti con 442 mila partecipazioni di studenti e 95 mila di adulti.
Per la prima volta oltre alle risorse pubbliche sono state studiate anche quelle private investite dal Terzo Settore e la realtà emersa non è ideale. Pur con notevoli differenze da città a città, l’attività principale è l’aiuto nei compiti scolastici (46,5%). 
I progetti del Terzo Settore durano nell’80% dei casi al massimo un anno scolastico, il 9% un biennio, il 10% più di un biennio. Più di un intervento su due coinvolge almeno 45 studenti. Solo un progetto su 4 è rivolto agli studenti stranieri ed «è emersa una tendenza solipsistica» nella gestione delle attività: il 50% dei progetti viene realizzato in totale autonomia dalle scuole, soprattutto a Roma e Milano. 
Vale a dire che ci si trova di fronte a tanti interventi, tante risorse, e nessun collegamento tra loro. Secondo Gianna Fracassi, segretaria confederale della Cgil, la ricerca è importante perché fa emergere «una lesione del principio di uguaglianza» e «segnala però le difficoltà dell’operatore pubblico soprattutto a causa dell’insufficienza delle risorse da dedicare al tema. Si hanno così interventi spesso deboli e troppo differenziati per territori».
Bisognerebbe intervenire in modo diverso, spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: «Servono interventi urgenti e mirati, che grazie alla conoscenza dei profili dei soggetti maggiormente a rischio riescano ad anticipare il più possibile le azioni di prevenzione e contrasto». Ma servirebbe soprattutto anticipare gli interventi e «cominciare già dalla scuola media». Anche le risorse messe in campo dal Terzo Settore sono importanti ma saranno davvero efficaci - continua Gavosto - solo se riusciranno a «coordinarsi e fare massa critica con gli interventi promossi dal settore pubblico e dalle scuole stesse. Ora questo coordinamento non c’è, a scapito dell’efficacia delle azioni messe in campo».
Proprio questo è, quindi, l’obiettivo della ricerca, sottolinea Marco Chiesara, presidente WeWorld Intervita: «Chiediamo che le scuole si aprano maggiormente al nostro intervento e, al contempo, che Miur ed Enti pubblici in generale favoriscano il processo di collaborazione tra scuole e terzo settore, sostenendo la nascita di reti durevoli nel tempo e capaci di mostrare risultati concreti».