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 2014  ottobre 13 Lunedì calendario

I tipi di contrtatto di lavoro esistenti sono addirittura cinquemila, dice Pietro Ichino. Polemica con Enrico Marro, giornalista del Corriere della Sera

C aro direttore, sul Corriere di ieri Enrico Marro dà conto di un «censimento» che porterebbe a contare 50 tipi di contratto di lavoro; ma proprio i risultati di quel censimento, visti da vicino, inducono a leggere il dato in modo assai diverso. Certo, se per «tipo di contratto» intendiamo una qualsiasi combinazione tra previsione di durata del rapporto, a termine o no, modalità di estensione e distribuzione dell’orario di lavoro, carattere stagionale o no, svolgimento dentro l’azienda o fuori, allora altro che 50 tipi: si arriva anche a 5.000. In realtà, un censimento serio delle forme giuridiche di organizzazione del lavoro dipendente retribuito, che abbiano una qualche diffusione nel nostro Paese, ne evidenzia una dozzina, tra quelle a tempo indeterminato e quelle a termine . Fra le prime si collocano il lavoro subordinato ordinario, la collaborazione coordinata e continuativa senza termine (co.co.co.), il lavoro cooperativo, lo staff leasing (somministrazione a carattere durevole) e l’associazione in partecipazione. Fra le seconde si collocano, oltre al lavoro a termine, con la sua sottospecie del lavoro occasionale, anche quello «accessorio» retribuito con i buoni-lavoro, quello «a progetto» (co.co.pro.), che è solo un sottotipo delle co.co.co., l’apprendistato, il «contratto di inserimento» e il lavoro temporaneo tramite agenzia. Cui si aggiunge ovviamente il lavoro autonomo classico, con la partita Iva, del quale si possono individuare migliaia di sottotipi; più... un sottotipo illegale: quello della simulazione del lavoro libero-professionale per nascondere una prestazione di lavoro sostanzialmente dipendente. 
Ciascuna delle forme di lavoro individuate sopra, come si è detto, può essere declinata in una grande pluralità di sottotipi dal punto di vista dell’estensione e della distribuzione del tempo di lavoro: infinite modalità di part-time orizzontale, verticale, o misto; di lavoro condiviso o job sharing , che è solo una forma evoluta di part-time caratterizzata dalla libertà dei due partner di distribuirsi il lavoro come vogliono tra loro; infine di lavoro intermittente, diffuso soprattutto nel settore turistico e dello spettacolo (i camerieri ingaggiati per i banchetti, le hostess per i congressi, ecc.). Ma queste sono soltanto varianti fisiologiche del contratto di lavoro, ammesse nel nostro Paese come in tutti gli altri maggiori. 
Questa essendo la situazione reale, a me sembra che la polemica ricorrente contro i «50 tipi di contratto» non abbia alcun senso. È sensato abrogare il sottotipo «a progetto» delle co.co.co. e il contratto «di inserimento»; ma, a parte questo, il problema non è quello di sopprimere una o più delle forme di lavoro menzionate, che tutte in qualche misura corrispondono a qualche esigenza effettiva nell’infinita varietà di un tessuto produttivo moderno (ogni possibilità di lavoro è preziosa!), bensì di individuare con precisione quella posizione di «dipendenza economica» del lavoratore dall’azienda, che può presentarsi anche nel lavoro autonomo, associato, o cooperativo, e che genera un rilevante squilibrio di potere contrattuale. Si tratta dunque di semplificare e al tempo stesso rendere più efficaci i criteri di individuazione della dipendenza effettiva; e di assicurare a tutti i «dipendenti» così individuati, oltre alle tutele che la Costituzione impone, nel rapporto di lavoro e sul piano previdenziale, anche un sostegno efficace nel mercato che consenta a tutti di spostarsi verso le occasioni di lavoro migliori, verso le aziende che meglio valorizzano e remunerano le capacità di ciascuno. 
Senatore di scelta civica
Pietro Ichino

L’articolo pubblicato ieri dal Corriere non ha alcuna intenzione di riproporre una polemica senza senso, ma solo di informare sulle molte, troppe, modalità che può assumere in Italia la eccessiva flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, riconosciuta un po’ a sorpresa dallo stesso presidente della Bce Mario Draghi. Seguendo il filo del ragionamento di Draghi, ma anche di autorevoli esperti e imprenditori, non credo si possa concludere che tutte le forme di lavoro corrispondano «a qualche esigenza effettiva» di un «tessuto produttivo moderno». Almeno una parte, come del resto lo stesso professor Ichino sa benissimo, sono, quando va male, la conseguenza di comportamenti spregiudicati o illegittimi dei datori di lavoro, quando va bene di un eccesso di «oneri diretti e indiretti» che gravano sull’impresa e che il Jobs act si propone di rimuovere incentivando il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele progressive. Basta prendere visione delle tante storie che vengono segnalate dai giovani o farsi un giro sul web (o anche tra amici, parenti e conoscenti) per rendersi conto che la trappola della precarietà poggia su forme contrattuali improbabili che spesso il lavoratore non ha la forza di mettere in discussione. In questo senso, un sistema semplice, come anche Ichino auspica, potrebbe fare a meno di alcune modalità di lavoro piuttosto che aspettare «efficaci criteri di individuazione della dipendenza effettiva». 
Enrico Marro