Corriere della Sera, 9 ottobre 2014
Totò Riina sostiene di avere il diritto di assistere all’interrogatorio di Napolitano sulla trattativa tra lo Stato e la mafia
«Andare al Quirinale per dare corso alla prova costituisce un atto dovuto, ma negare all’imputato il diritto di partecipare non altrettanto: non si vede perché l’imputato non debba presenziare» sostiene Totò Riina per bocca del suo difensore. Ne consegue che sia un atto dovuto anche la presenza del «capo dei capi» di Cosa nostra, «sia pure in videoconferenza», all’udienza del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella quale testimonierà il presidente della Repubblica. Se infatti il codice prevede che venga sentito nella sua residenza-ufficio per rispetto «alla funzione svolta, la norma non dice affatto che l’udienza debba svolgersi diversamente da quelle ordinarie».
Con una memoria di nove pagine firmata dall’avvocato Luca Cianferoni e depositata alla corte d’assise, il boss mafioso pluriergastolano insiste nella sua richiesta di assistere dal carcere di Parma all’udienza quirinalizia, sebbene lo stesso legale preveda che «per svariate ragioni» i giudici non modificheranno la scelta di escludere gli imputati. La decisione finale dovrebbe essere comunicata nell’udienza di oggi. Tuttavia il difensore di Riina sostiene che se i giudici non cambieranno indirizzo si verificherà una «violazione del diritto dell’imputato a partecipare alla udienza del “suo processo”, del processo che lo riguarda».
Quasi lanciando una sfida alle istituzioni a nome del suo cliente, l’avvocato del capomafia (che nei processi fiorentini per le stragi del 1993 chiese invano di ascoltare come testimoni Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica e ministro dell’Interno dell’epoca) afferma a nome del suo cliente: «Come assolutamente non poteva venti anni fa, neanche oggi il Paese può ancora permettersi la verità su quelle stragi».
Senza alcuna di queste valutazioni extragiuridiche, la Procura ha sostenuto il diritto degli imputati che ne fanno richiesta a partecipare all’udienza poiché l’articolo 178 del codice di procedura penale stabilisce che «è sempre prescritta, a pena di nullità (del processo, ndr ), l’osservanza delle disposizioni concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato».
Nel frattempo gli stessi pubblici ministeri hanno cominciato la requisitoria nel processo-gemello contro Calogero Mannino che si svolge, col rito abbreviato, davanti al giudice dell’udienza preliminare. L’ex ministro democristiano — secondo il racconto dei pentiti di mafia — doveva morire vent’anni fa nella resa dei conti scatenata da Cosa nostra contro i politici che non avevano rispettato i patti con l’organizzazione criminale. Invece oggi è vivo e vegeto, ma sul banco degli imputati, ad ascoltare il giovane pm Roberto Tartaglia (affiancato dal procuratore aggiunto Teresi e dai sostituti Di Matteo e Del Bene) che lo accusa: «Dopo l’omicidio di Salvo Lima nel marzo 1992, terrorizzato e convinto di essere la prossima vittima, Mannino ha attivato un canale di interlocuzione diretta e occulta con Cosa nostra per salvare se stesso».
Subì vari avvertimenti, ne parlò con i carabinieri del Ros attraverso il maresciallo Guazzelli che per questo fu assassinato il 4 aprile ’92 come «ultimo segnale» inviato all’ex ministro; gli stessi carabinieri prima lo protessero cancellandone il nome dal rapporto sui legami mafia-appalti e poi andarono a chiedere all’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino che cosa volessero i Corleonesi per fermare omicidi e stragi. Nella ricostruzione dell’accusa la trattativa cominciò così. «E da quel momento — dice il pm Tartaglia — la strategia di Cosa nostra cambia: non si uccidono più i politici “traditori” come Mannino, che era il secondo della lista, ma ci si concentra sui magistrati con l’uccisione di Borsellino e il progetto di attentato a Piero Grasso, e si passa al terrorismo puro con le stragi sul continente del 1993».
Per questo motivo «la trattativa non ha bloccato i progetti criminali di Cosa nostra, li ha solo indirizzati verso obiettivi diversi». Nessuno degli imputati appartenenti alle istituzioni, ribadisce Tartaglia, è sotto processo per aver trattato con i mafiosi; sono invece accusati di aver dato un «contributo morale» alla minaccia e al ricatto mafioso verso il governo facendosene intermediari o «perché hanno dato l’input all’intermediazione occulta, come Mannino».
Seduto un banco dietro i suoi difensori che dicono di aver già ascoltato gli episodi snocciolati dal pm nei processi per concorso in associazione mafiosa dai quali il loro assistito è uscito assolto, l’ex ministro ascolta e prende appunti. Alla prossima udienza, il 4 novembre, ci sarà la richiesta di condanna.