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 2014  ottobre 09 Giovedì calendario

Quali Paesi stanno uscendo dalla crisi? Soprattutto quelli che si sono detti fin dall’inizio: «questa crisi è frutto in primo luogo dei nostri limiti, ce la siamo creata con le nostre mani, dobbiamo innovare su noi stessi per liberarcene»

Inacassata la fiducia sul Jobs Act in Senato, archiviato il vertice di Milano, Matteo Renzi può fermarsi un attimo a misurare lo spread che forse oggi conta di più. Non è finanziario, è politico e psicologico. E aiuta a capire chi alla fine riuscirà, e chi no, a districarsi in questa interminabile crisi dell’euro. Ciò che rivela quello spread è che non ce la stanno facendo tanto i Paesi che, per dirla nel gergo di Bruxelles, “hanno fatto le riforme”.Ne stanno uscendo meglio quelli che, piuttosto, si sono detti dall’inizio: questa crisi è frutto in primo luogo dei nostri limiti, ce la siamo creata con le nostre mani, dobbiamo innovare su noi stessi per liberarcene. A restare indietro sono gli altri, quelli che per anni si sono esercitati a dare sempre e solo la colpa agli altri — a chiunque altro — e ora affrontano trasformazioni importanti senza sapere perché, o verso dove.Dev’essere questa la sfumatura che mette oggi l’Irlanda e la Spagna in traiettoria di ripresa, ma la Francia e l’Italia ancora in mezzo alla palude. Ovunque in questi quattro Paesi si sentono argomenti anche molto validi su ciò che la Germania e la Banca centrale europea dovrebbero fare e non fanno. Ma c’è una qualità della reazione mentale allo shock che fa la differenza, ancor più se declinata sulla scena che abbiamo sotto gli occhi: i voti di fiducia in Senato su una riforma ancora imprecisata dei contratti di lavoro permanenti; le pressioni e le attese a Berlino, i giudizi di Bruxelles, le tensioni nella Bce sul futuro di un potenziale ordigno finanziario chiamato Italia; e nel Paese, la fine dell’illusione che il tempo sia comunque dalla nostra parte.A Roma c’è un premier sempre più costretto a muoversi fra questi campi di forza, ciascuno intento a catturarlo nella propria gravitazione. Nel governo tedesco si è ormai convinti («sulla base dell’esperienza », nota il ministro Wolfgang Schaeuble) che i Paesi fragili affrontano il cambiamento solo se vincolati a farlo. Può essere un modo più o meno elegante per dire che solo la troika funziona su gente come noi, o per alzare l’intensità della sorveglianza e delle relative condizioni, o magari solo il segnale che la Germania non ha fretta: può lasciare l’Italia nella sua agonia economica, finché non capirà che deve cambiare strada.Poi c’è il cantiere aperto della riforma del lavoro, con il passaggio drammatico di ieri.È senz’altro legato alle pressioni europee, perché Renzi di colpo ha affrontato l’articolo 18 e la disciplina dei licenziamenti dopo aver spiegato a lungo che queste cose contavano poco. Ha cambiato rotta solo dopo i suoi contatti estivi con i leader europei. Il risultato è che ieri, con François Hollande e Angela Merkel a Milano, a Roma è andato in scena il più strano dei voti di fiducia: il Senato ha delegato il governo a riformare i contratti sulla base di un testo che non ha una sola parola sul punto più delicato, il regime dei licenziamenti economici e disciplinari.In realtà Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, ha delineato in aula un percorso: nei nuovi contratti (non negli esistenti) i licenziamenti economici non prevedono il reintegro per decisione giudiziaria, mentre nei casi disciplinari la possibilità di reintegro sarà delimitata. E sarebbe ingeneroso sostenere che la delega votata ieri è in bianco, perché il testo contiene un disegno equilibrato: dal welfare alle politiche attive di formazione e collocamento, fino alla pulizia nella giungla delle forme di precariato, i passi avanti si vedono e dovevano arrivare già anni fa, decisi magari da chi oggi protesta.Resta però l’impressione di un colossale corto circuito fra ciò che si fa e le ragioni per le quali si cerca di farlo. Forzando i tempi e il dibattito, facendo leva sul timore di molti senatori di andare a casa se cade il governo e si va al voto, il premier ha preferito mettere parti del suo stesso partito spalle al muro in nome di un simbolo: l’articolo 18. Anche la transizione ai negoziati sui salari in azienda è sul tavolo, è anche più importante dell’articolo 18, ma semplicemente non se ne parla perché come totem funziona piuttosto male. Non riescono a brandirlo né i riformatori, né i loro nemici.Pier Carlo Padoan ripete spesso che le riforme approvate fanno bene all’economia solo se su di esse «c’è consenso»: non sono uno scalpo da offrire, ma un’innovazione da spiegare e da condividere. Quella del lavoro, così com’è, ha molti aspetti positivi. È ora di parlarne, e mettere scalpi, simboli e totem nel posto che li attende da tempo: il solaio.