8 ottobre 2014
I corpi deformati di Giacometti, il genio della scultura del Novecento, in una grande mostra a Milano
«Poiché un’opera d’arte è comunque un’illusione, bisogna intensificare la qualità illusoria, per creare il più possibile l’effetto della vita». Sono parole di Alberto Giacometti, le cui opere (circa sessanta) sono esposte fino al 1° febbario alla Gam di Milano, in una mostra prodotta da Gam e 24 ORE Cultura, curata da Catherine Grenier, direttore della Fondazione Alberto e Annette Giacometti di Parigi da cui provengono i lavori e gli affascinanti materiali d’archivio raccolti [Lea Mattarella, Rep 8/10].
Giacometti nasce nel 1901 a Borgonovo, piccolo villaggio della Svizzera italiana vicino a Stampa, dove il padre Giovanni, pittore, trasferisce presto il suo atelier. Sembra che da bambino passasse molto tempo rannicchiato in una roccia scavata nel paesaggio alpino. Ricorderà più tardi la felicità provata nascosto tra le montagne. E forse è proprio lì che ha inizio il suo amore per la materia tanto che nel 1922 quando arriva a Parigi è alla scuola dello scultore Bourdelle che si iscrive [Lea Mattarella, Rep 8/10].
Giacometti nei primi anni della sua carriera scolpisce teste, cosa che continuerà a fare anche quando il suo stile diventerà maturo. Si racconta che nell’atelier di Bourdelle fosse attratto dai teschi: cercava di ritrovare i palpiti che li avevano animati [Lea Mattarella, Rep 8/10].
Le origini spiccano nelle belle teste in gesso e bronzo, illuminate dalla cascata di luci e stucchi della Galleria. Testa della madre, austera e foriera di quella sorta di ascetismo che segnerà l’artista, educato alla scuola evangelica di Schiers, fonte di continue contraddizioni esistenziali: il rigore di sé contro il piacere dei sensi, tanto bramato quanto ostacolato dalle menomazioni fisiche. Teste, teste solide, lo sguardo è quello enigmatico dell’antichità. Perché, ventenne, Alberto visita Padova, Firenze, Roma. Giotto, Michelangelo, Raffaello, la lezione di Masolino e le sue figure allungate che fuggono disperate dal Paradiso [Roberta Scorranese, Cds 8/10].
Influenzato da Tintoretto e Giotto, da un’antropologia culturale insita nel linguaggio specifico della scultura, porta la sua attenzione, indietreggiando nel tempo, fino a quella primitiva. Da qui il costante riferimento alla figura umana, maschile e femminile, che sembra attraversare l’ansietà del proprio tempo e la precarietà di una storia segnata da lutti e conflitti, ma anche da un costante vitalismo accompagnato dal sentimento di una solitudine inevitabile [Achille Bonito Oliva, Rep 8/10].
Parigi, dunque, primi anni Venti. Pochi anni prima Modigliani aveva dipinto il grande Nudo disteso , Picasso faceva maestose maternità. Giacometti no. Lui distorce il visibile in figure cubiste dense nei volumi, compatte (in mostra), come a restare aggrappato a un barbaglio di realtà [Roberta Scorranese, Cds 8/10].
Il problema è che a Giacometti la realtà, l’attraversamento dell’esistenza vera, sono molto più congeniali dei capricci del sogno e dell’inconscio. Uscirà dal movimento nel 1935 per riprendere a scolpire i suoi volti in cui cerca la rassomiglianza con l’anima del personaggio [Lea Matterella, Rep 8/10].
Il bellissimo poeta René Crevel si toglierà la vita, Dalí sublimerà le inquietudini nell’autocaricatura. Giacometti si riaggrappa alle origini telluriche e prende a scolpire dal vivo. Inaccettabile per Breton. È rottura con i Surrealisti, ma a metà degli anni Trenta per lo svizzero è l’inizio di un decennio «fatto di piccole sculture in miniatura, come se l’inseguimento della pienezza fosse diventato un bisogno impellente», dice la curatrice della mostra Catherine Grenier [Roberta Scorranese, Cds 8/10].
E Giacometti, già nei primi anni Sessanta: «Se mi parlate dei valori che si sono andati disgregando, questo è bene, benissimo». L’artista era un autentico individualista, che amava ritrarre gli esseri umani proprio perché erano loro a creare la scienza. Il che non toglieva il senso del mistero. Ogni corpo, anzi ogni testa (per Giacometti una magnifica ossessione) metteva in luce «lo sforzo di cogliere, di possedere un’apparenza che di continuo sfugge» [Giulio Giorello, Cds 8/10].
Iniziava al mattino scontroso, a metter le mani nella pasta esuberante e generosa della sua unta terra cedevole. E via via che procedeva, scartava, sottraeva, liquidava, gettava e disfaceva, lavorando di lima, di unghie, di temperino e d’accidia, non rimaneva quasi più traccia: il «non-so-che ed il quasi-nulla», come avrebbe potuto chiosare Jankélévitch [Marco Vallora, Sta 8/10].
Se non fosse stato per il fratello Diego che – alzandosi alle prime ore del mattino, più o meno quelle in cui Alberto andava invece a dormire – prendeva dall’atelier le sculture che giudicava buone e le portava subito in fonderia, non avremmo nemmeno la metà delle opere di Giacometti. «Non va, non va», borbottava sempre mentre continuava a togliere gesso dalle statue che modellava fino a renderle così sottili da sembrare barcollanti. Di molte ci restano solo le fotografie perché il giorno dopo erano già diverse [Francesca Bonazzoli, Cds 8/10].
Ho sempre pensato pensato che la scultura è un genere che deve chiedere perdono. Per ingombro, volumetria, peso, occupazione di suolo pubblico e privato. Nell’arte contemporanea, Alberto Giacometti ha sviluppato un confronto sistematico con la scultura arrivando a soluzioni che ne fanno un vero e proprio artista concettuale [Achille Bonito Oliva, Rep 8/10].
Quali sono le sue più importanti invenzioni dal punto di vista formale e del linguaggio plastico? «Per esempio il rapporto che instaura fra figura e piedestallo (che già Brancusi aveva affrontato ma in modo diverso). In Giacometti il basamento diventa figura e la figura basamento (i grandi piedi “piedestalli”). Inoltre è fondamentale il rapporto di scala: sculture piccolissime si caricano di straordinaria tensione spaziale quando sono posate su basi apparentemente sproporzionate. Per mostrare la forza di questa invenzione plastica, nell’ultima sala ho messo a confronto una scultura piccolissima con una statua gigante (la curatrice della mostra Catherine Grenier) [Francesco Poli, Sta 8/10].
È curioso come uno dei protagonisti assoluti della dissoluzione e quasi disparizione della figura umana, consunta, urticata, corrosa (sin a parere un osso spolpato, gettato a terra, al cane ringhioso della miseria espressiva novecentesca) quale Giacometti rimanga legato, nel nostro inconscio visivo, a delle immagini-icone, così ben formulate: indelebili «flash». Giacometti, che si copre il capo improvvisato, con un lembo di gabardine malandato, per difendersi dalla meticolosa pioggerellina, che sta abbattendosi sul marciapiede del suo mitico studio, 46 rue Hyppolite-Maindron; mentre sta avviandosi, mitragliato dallo scatto amico e complice di Cartier-Bresson, verso il suo caffeuccio di Rue Alésia, a mangiarsi due stantii ovetti sodi, e scambiare due chiacchere vitali, due boccate di fumo, esistenzialistico e nutritivo, con le sue compagne della vita. Le miserande e loquaci peripatetiche, truffaultiane, di strada [Marco Vallora, Sta 8/10].
O, ancora: Giacometti alla Biennale, che traghetta lui stesso le sue steli-macigno, nelle sale deserte e stupefatte, sposando una sisifea solitudine beckettiana. Ed è lui che pare piuttosto un ectoplasma sfibrato e sfuggente, masticato da un clic, sfumato e mosso. Mentre le sue titaniche figure scorticate, intaccate dalla lebbra dell’inquietudine e, massima ossessione, del movimento transeunte, sostano in realtà, solide e perentorie, riottose come cinghiali [Marco Vallora, Sta 8/10].
«Ho sempre l’impressione o la sensazione della fragilità degli esseri viventi. Ho la percezione che debbano contare su un’energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo lo sento ogni volta che lavoro dal vero» (Giacometti) [Lea Matterella, Rep 8/10].