Corriere della Sera, 8 ottobre 2014
Non si discute davvero più, non si ragiona davvero più. Quella che è andata in crisi è la dialettica
In un periodo in cui il termine «eclisse» va di moda (eclisse della storia, eclisse della borghesia, eclisse della ragione, eclisse dei valori, ecc.) nessuno ha per ora avuto l’ardire di parlare di una eclisse della dialettica, cioè di un concetto e di una prassi che hanno occupato e ispirato tutto il secolo passato. Per decenni abbiamo fatto costante riferimento alla dialettica delle idee e delle ideologie, alla dialettica delle classi, alla dialettica generazionale, al materialismo dialettico, gestendo una invasiva eredità della primigenia dialettica hegeliana.
Ma di tutto ciò oggi non c’è traccia, quasi non avessimo più bisogno di strumenti di confronto fra idee, posizioni culturali, interessi economici, poteri politici.
Il panorama culturale, e non solo italiano, è in proposito sconfortante: non esiste una dialettica fra idee, vista la dominanza crescente di una comunicazione di massa che non ha bisogno di profondità psichica e di confronti contenutistici; non c’è dialettica culturale, visto che sempre meno esistono soggetti e strumenti organizzativi che siano portati a discutere con posizioni altre (vince il tweet, strumento più di diverbio che di dialogo); non esiste dialettica fra interessi economici, visto che non sono più i tempi in cui il sistema ruotava sulla competizione spesso conflittuale fra settori tradizionali e nuovi, fra produzione e servizi, fra industria e finanza; e non esiste dialettica fra poteri politici, visto che la fine dei grandi scontri ideologici ha lasciato spazio infinito a una «politica politicante» dove tutto è fluido, tattico, improvvisato, senza alcuna sede che faccia da crogiuolo alle diverse posizioni in campo (quel crogiuolo che nei secoli ha fatto crescere l’arte politica e gli assetti istituzionali).
Una tale complessiva rimozione della dialettica ha effetti facilmente riscontrabili nella nostra concreta situazione sociopolitica: siamo pieni di partiti in cui non c’è alcuna dialettica interna; siamo pieni di sindacati in cui è difficilissimo sapere se ci sono anche rudimentali posizioni dialettiche; siamo prigionieri di un mondo associativo molto differenziato e composto da soggetti che mal sopportano verifiche sul proprio modo di stare in vita; viviamo in una ormai lunga congiuntura di governance (dalle «larghe intese» al patto del Nazareno) che evita ogni reale differenziazione e si orienta verso un regime di «partito unico»; viviamo un impoverimento del tessuto istituzionale (di vertice, periferico ed intermedio) che sta portando quasi a una scomparsa della dialettica istituzionale.
Ed è verosimile che le stesse tentazioni di leadership semiautoritarie che molti denunciano siano essenzialmente l’effetto del vuoto creato dalla crescente mancanza di confronto culturale e politico. Non è esagerato quindi parlare di eclisse, quasi di atarassia della dialettica. È forse finito il ciclo secolare dalla hegeliana primazia della dialettica? L’opinione collettiva sembra indulgere verso tale ipotesi, e «ce ne faremo una ragione», nella cinica constatazione che molto dell’armamentario del Novecento sta finendo nei polverosi armadi della tradizione più che nelle memorie digitali.
Non venga però considerata passatista la considerazione, anzi la personale convinzione, che una certa dose di dialettica è necessaria anche in una società liquida e indifferenziata come è la nostra. Rischiamo infatti che, una volta saltata la dialettica, si resti prigionieri di conflitti duri e ingovernabili, come è già avvenuto e avviene nella sponda sud del Mediterraneo; ma più ancora rischiamo che, senza cultura e prassi della dialettica, non maturino classi dirigenti capaci di idee nuove e di comportamenti più realistici e responsabili.
Se si pone mente alla ispirazione povera e inconcludente di chi ci governa da un paio di decenni, l’eclissi della dialettica potrebbe risultare una vera tragedia domestica.