Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2014
Guadagni col trucco. Sono le aziende a comprare le proprie azioni e a far salire gli utili di Wall Street
Quando, stasera, Alcoa annuncerà i risultati del terzo trimestre, sarà un probabile tripudio se l’utile netto per azione sarà più alto dei 21 centesimi stimati dagli analisti. Così, all’insegna di dati migliori delle attese, come (quasi) sempre succede, si aprirà la nuova stagione di trimestrali a Wall Street e gli operatori potranno dichiarare che la borsa ha «nuova linfa» per crescere. Fra tre settimane, quando anche le maggiori società avranno pubblicato il bilancio trimestrale, si scoprirà che il monte utile complessivo per l’S&P500 sarà salito dell’8%, o qualcosa in più, battendo il consenso che ieri era al 6,4%.
Quel che non si ricorda è che quel "consenso" (secondo Thomson Reuters) vedeva una crescita dell’11%, appena tre mesi fa, e del 13% a inizio anno. E neppure si bada al fatto che, mentre a gennaio ci si aspettava una crescita degli utili del 10,8% per il 2014, ora le stime sono state tagliate a un più consono 8,2%: con una borsa che nel frattempo è coerentemente salita del 6%.
Ma quel che gli operatori fingono di non vedere è che quegli utili per azione, stimati dagli analisti o suggeriti dai manager delle società, sono gonfiati dai buy back (acquisti di azioni proprie) che furoreggiano a Wall Street: utili lievitati in media di 3 punti percentuali (o solo di 2 punti nel 3° trimestre, secondo Bank of America). Quest’anno le 500 società dell’S&P spenderanno 565 miliardi per comprare sul mercato le proprie azioni, l’8% più del 2013 che fu già un anno record. Se si aggiungono i 349 miliardi distribuiti in dividendi, fanno 914 piovuti sui mercati, ossia il 95% degli utili netti complessivi. Nel secondo trimestre s’è distribuito addirittura più di quanto s’è guadagnato.
Le maggiori società pagano per ogni buy back tra il 5 e il 6% della propria capitalizzazione (Apple, Oracle, eBay, Fedex); Ibm e Juniper N. oltre il 10%. I risultati sono tangibili. Togliendo dal mercato un bel po’ di titoli, l’utile per azione (eps) di Apple è salito quest’anno del 10,9% contro il 5% dell’utile netto. In media, negli ultimi 3 anni, gli utili del gigante tecnologico sono stati il 18% più alti di quelli effettivi, se misurati con il metro degli eps; quelli di Fedex solo del 9%, ma per Ibm, una modesta crescita dell’utile del 14% in 3 anni s’è trasformata in un baldanzoso salto del 29% con il trucco degli eps.
Sono tutti felici a Wall Street: i manager che, comprando azioni proprie, ne fanno crescere il valore e volare quello delle loro stock option; gli investitori, che così possono giustificare p/e (rapporto prezzo-utile) di 17 volte; e gli operatori che, ad ogni manciata di centesimi in più delle stime, vanno in visibilio per l’effetto sorpresa. Infine, gioiscono le banche d’affari, che spesso prestano denaro alle società a interessi quasi zero per consentire la magia della levitazione degli utili: come sarà per Juniper, che ha appena varato un buy back che vale il doppio dell’utile conseguito. Nel trionfo del realizzato «valore per l’azionista», non si fa caso alla spesa per investimenti delle aziende crollata del 20% e che, come ci racconta Barclays, l’età media degli impianti abbia raggiunto i 22 anni. Come nel lontano 1956.