la Repubblica, 7 ottobre 2014
Come mai tanti italiani tornano a vivere in provincia?
Fino a non molti anni fa era il «bastardo posto » da cui fuggire a gambe levate, non appena l’età e l’autonomia finanziaria lo avessero consentito. Oggi la piccola città torna di gran moda. E, contemporaneamente, declina il fascino della metropoli: il 54 per cento dei romani, potendo, andrebbe a vivere altrove. Effetto della crisi? «Certamente — risponde Giuseppe De Rita — ma non solo. Anche voglia di tornarealle radici».I dati dei censimenti confermano il controesodo generazionale degli italiani. «La maggior parte degli abitanti delle nostre città sono immigrati da una o due generazioni. A Roma, ad esempio, vivono tra i 150 e i 200 mila abruzzesi che hanno mantenuto la casa nei luoghi di origine», conferma il direttore del Censis. Per questo una parte del controesodo, è solo apparente: «La tassazione sulla casa — spiega de Rita — è fatta in modo che conviene affittare l’appartamento a Roma ed avere la residenza principale al paese d’origine».Ma nella maggior parte dei casi il ritorno alle piccole città, ai centri dove la vita è più semplice e meno costosa, è un fatto reale, una scelta di vita quando non una vera e propria strada obbligata. «Una delle caratteristiche della crisi — spiega il sociologo torinese Roberto Cardaci — è stata quella di invertire il flusso del Novecento dai piccoli centri alla metropoli industriale». La crisi dell’industria manifatturiera ha fatto il resto: oggi per un giovane disoccupato, è più facile trovare lavoro in un agriturismo che in un’azienda metalmeccanica costretta a sopravvivere con la cassa integrazione. Il rapporto Ires Piemonte sulla Green economy nel 2013 sottolinea che anche nell’agricoltura c’è un ritorno dei giovani alle campagne e alle attività che i nonni avevano abbandonato cent’anni fa per andare a lavorare in fabbrica. Spiega Cardaci: «Colpisce assistere alla rivincita di quello che Nuto Revelli, parlando delle campagne del cuneese, definiva il mondo dei vinti. Oggi è più vitale una piccola città della Langa di molte periferie di una metropoli».Le ricerche del Censis spiegano che nel ventennio tra il 1991 e il 2011, a due censimenti di distanza, la popolazione delle città capoluogo è diminuita a tutto vantaggio delle località delle loro province. «Questo — sottolinea de Rita — è un fenomeno non solo italiano. In Italia è più marcato perché gran parte degli abitanti delle nostre metropoli non hanno mai perso completamente, nel corso delle generazioni, il legame con i territori d’origine. Così quando i vantaggi della grandi città hanno cominciato a declinare, è iniziato il controesodo». La crisi ha costretto i sindaci delle metropoli a tagliare pesantemente servizi anche essenziali. Il 65 per cento dei romani individua nella «scarsa manutenzione e pulizia delle strade» il secondo indicatore della crisi, subito dopo la chiusura di un gran numero di negozi. E il 64,4 per cento degli abitanti della Capitale ritiene che, in generale, siano stati ridotti i servizi pubblici. Un fenomeno che è segnalato solo dal 51 per cento della media nazionale. Uno dei vantaggi originari della grande città, la possibilità di vivere in un mondo protetto, con tutti i servizi essenziali a disposizione e a poca distanza da casa, è così venuto meno. «Resiste — sottolinea De Rita — il welfare strutturato. Le grandi città sono ancora appetibili per l’assistenza sanitaria, la rete di cliniche e ospedali che sono in grado di far funzionare. Per questo la fuga dalla metropoli dei pensionati, uno dei fattori che caratterizzano il controesodo generazionale, porta, in genere, a spostamenti limitati, spesso a ventitrenta chilometri dai grandi centri ». Ma è sul welfare destrutturato, su quella che definiamo normalmente qualità della vita, che la piccola città prende la sua rivincita: «La facilità di tenere i rapporti tra le persone, la bellezza del paesaggio italiano, il senso della comunità sono la carta vincente dei piccoli centri», dice De Rita. E aggiunge che la crisi ha fatto venire meno uno dei valori forti della metropoli, la capacità di soddisfare la propensione al consumo. Quando si fatica ad arrivare alla terza settimana del mese, il fatto di vivere a poca distanza da un grande centro commerciale smette di essere un vantaggio e diventa quasi una tortura. «La crisi — dicono al Censis — ha fatto crescere una fortissima istanza di sobrietà». La vita senza sprechi non è solo una necessità ma diventa anche un valore che la provincia e i piccoli centri sono in grado di soddisfare meglio.La globalizzazione delle comunicazioni ha fatto il resto annullando uno degli svantaggi storici dei luoghi piccoli: la distanza dai centri di socializzazione. Oggi si può vivere in un piccolo paese senza cinema e guardarsi il film preferito su internet, rimanere collegati con gli amici attraverso i social network. «Ma la vera dimensione ideale — conclude de Rita — non è quella dei piccoli paesi. È piuttosto quella delle piccole città, dei centri di media dimensione, che uniscono i vantaggi della vita di provincia alle sicurezze di un sistema di protezione sanitaria e ospedaliera paragonabili a quelli di una metropoli».Ecco la provincia «bastardo posto » cantata da Francesco Guccini, il luogo da cui sono scappate generazioni di futuri abitanti metropolitani, la piccola città che oggi si prende la rivincita. Quella da cui fuggì Guccini era la Modena del dopoguerra. Oggi sta recuperando terreno. Giancarlo Muzzarelli, 59 anni, è diventato sindaco da pochi mesi: «Non si deve credere che da noi si viva nel paradiso terrestre», premette il primo cittadino di Modena. Che aggiunge subito: «Rispetto alle grandi città possiamo dire che il nostro welfare regge ancora. Non sono più i periodi d’oro, quando avevamo una disoccupazione sotto il 3 per cento e il Comune poteva investire tra i 60 e gli 80 milioni all’anno ». Le vacche magre di Modena sono comunque più grasse di quelle delle metropoli: «Riusciamo ancora a destinare più del 50 per cento delle risorse al welfare cittadino, anche se gli investimenti si sono ridotti a 10-15 milioni, la disoccupazione è salita all’8 per cento e abbiamo dovuto fare i conti con gli effetti del terremoto ». Il sindaco ammette che «la dimensione della città è quella ideale per far crescere una comunità. Gli amministratori possono immaginare di andare nelle piazze a incontrare direttamente i cittadini, guardali in faccia per capire quali sono i problemi». Nella crisi, le associazioni di volontariato hanno fatto nascere Portobello, un supermercato realizzato con merce offerta dai centri commerciali e destinata a chi non può pagarsi la spesa. Per i più abbienti la città offre comunque un habitat interessante se anche gli amministratori delegati dei grandi marchi del lusso automobilistico hanno scelto di comperare casa a Modena.Tutto oro quel che luccica nella piccola città di un tempo? «Dice così il sindaco? Mah, io non posso parlare perché a Modena non vado da tropi anni. Ho qui a cena a casa gli amici che mi stavano proprio raccontando come Modena stia diventando un po’ spenta se non morta». Francesco Guccini risponde divertito alle domande sulla metamorfosi del «bastardo posto» piazzato tra la via Emilia e il West. Fuggirebbe ancora oggi verso la metropoli? «Per la verità la canzone non era un elogio della metropoli. Era il racconto di un periodo triste, cupo, delle prime traversie con le ragazze. Un periodo negativo soprattutto perché si era poveri, si era appena usciti dalla guerra». Ma quando si è trasferito a Bologna, si è aperto il mondo... «Beh, certo, quando ci siamo trasferiti negli anni Sessanta, ci pareva finalmente di respirare ». In realtà non ha mai sognato di andare in una città più grande: «A Milano e a Roma sono stato per lavoro. Ma per me la dimensione di Bologna era più che sufficiente. L’idea di dover trascorrere ore per spostarmi da una parte all’altra della stessa città non mi è mai andata a genio. Diciamo la verità: io sono pigro. E poi il mio sogno è sempre stato quello di vivere in montagna. Così ho lasciato Bologna e sono finito nel paese di 900 abitanti sull’Appennino, dove vivo ormai da molti anni. E posso dire di aver trovato la mia dimensione». Un precursore.
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L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.
Ilvo Diamanti