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 2014  ottobre 07 Martedì calendario

Depardieu si confessa: «Da ragazzino andavo a fare sesso con i gay per soldi»

Poetico, irriverente, esistenzialista. Mai ragionevole e mai rispettabile, come molti dicono di lui. Ma stavolta più ragionevole e più rispettabile perché si confessa come mai prima d’ora. Gérard Depardieu arriva nelle librerie francesci con un’autobiografia esplosiva. «Tutta la mia vita ho corso per piacere, per essere stimato in modo che quando arriverà il mio turno io abbia un po’ di considerazione per me stesso, solo un decimo della stima che mi portano gli altri. E adesso me ne frego, mi si prenda per quello che sono o non mi si prenda». Scrive così, con l’aiuto della penna di Lionel Duroy in Ça s’est fait comme ça (È andata così), racconto quasi cinematografico di 65 anni vissuti in maniera a dir poco rocambolesca tra sesso a pagamento, furti, galera, i tanti figli da «ventri diversi» - «ho la famiglia che mi sono fatto» - e poi la salvezza, il teatro e il cinema, il suo rapporto morboso con l’alcol, che usava fino a stordirsi per non sentire i rumori del suo corpo, il suo «autismo».
«E pensare che ti ho quasi ucciso» gli ripeteva mamma Alice, detta «Lilette», quando gli raccontava il tentativo di abortire con i ferri per lavorare a maglia, lui terzo figlio in arrivo da papà Dédé e che la madre voleva lasciare nonostante il grande affetto. «Mi ha raccontato lei di come ci ha provato. Ma con un tale amore. Per fortuna sei arrivato, mi diceva». Un sopravvissuto, dice ora lui. E intanto ricorda come il suo riscatto sia arrivato dopo, quando aiutò sua madre a partorire altre due volte, le bacinelle di acqua calda in mano.
Per strada a dieci anni - «ma passavo tranquillamente per uno di quindici» - Gérard è cresciuto a Châteauroux, cuore della Francia, un bimbo vispo figlio della povertà e di un pompiere chiamato René ma detto «Dédé» perché era analfabeta e «non sapeva scrivere che due lettere, la D del suo cognome e la D di Dio». Gérard se ne andava in giro da solo e «subito ho imparato, sin da quando ero giovanissimo, che piacevo agli omosessuali». Quando gli uomini lo avvicinavano, cinico furbo e trasgressivo com’era, chiedeva soldi in cambio. Prostituzione, insomma. Intanto rubava scarpe e gioielli alle salme del cimitero di città. Fino al carcere, a 16 anni. Tre settimane per il furto di un’auto. Poi la decisione di partire per Parigi, dove per mantenersi continuava a prostituirsi, rivendeva al doppio del prezzo le sigarette comprate dai militari di una base Nato e derubava gli studenti del ’68 francese che dormivano in piazza. «A vent’anni, il criminale che era in me era vivo e vegeto».
È una cavalcata da montagne russe quella nella vita di Dépardieu. Non a caso «il monumento» del cinema francese oggi è tanto amico di Vladimir Putin. Si definisce un «rozzo campagnolo» salvato da un cacciatore di talenti, omosessuale, che gli fa studiare Teatro francese quando approda a Parigi. Ora dice: «Mastroianni, Duras, Carmet, per me non sono mai morti». Come suo padre, Dédé, che ha segnato tutta la sua esistenza e il rapporto con i suoi figli, tra cui Guillaume, attore anche lui, morto a 37 anni per una polmonite dopo una vita spericolata tanto quella del padre, tra depressione, alcol e droga, l’eroina, che trafficava già all’età di 17 anni e per la quale scontò tre anni di carcere. «Ci sono persone che perdono la vita ma non perdono l’amore perché vivono in me», dice del padre, l’uomo che lo ha fatto vivere «in una libertà totale», che come lui «portava un caschetto alla marinara senza aver mai visto il mare e quando «era imbottito» - di alcol - «partiva per certi viaggi che gli spuntavano nella testa...».
Ora Depardieu ha un’altra vista. Ma trasgressiva e spericolata come sempre. Irriverente. Come ancora dimostra quando al settimnale Le Point parla della querelle che ha fatto esplodere in Francia per aver contestato la presidenza Hollande sulla tassa imposta ai redditi alti: «Non voglio, a 65 anni, pagare l’87 per cento di imposte. Trovo normale pagare, ma non a degli scemi che pensano di fare il bene». Sulla scelta di prendere la cittadinanza russa e vivere per metà dell’anno fuori dalla Francia: «Sono arrivati al punto di volermi togliere la cittadinanza francese. Ma lo scemo che lo ha detto, torni a scuola (l’ex primo ministro Jean-Marc Ayraul, ndr). Anche se uccidi il presidente della Repubblica resti francese. Sei un idiota, ma un idiota francese». «Ho pure chiamato Hollande, gli ho detto che era fortunato a essere lì, perché ci sarebbe dovuto essere DSK se non si fosse fatto “afferrare il pisello”». Poi racconta di come si sia pentito di interpretare Dominique Strauss Kahn nel film di Abel Ferrara: il regista «non ha capito che la parte di questa donna, la storia di Nafissatou Diallo, era più importante delle tre ammucchiate al Fondo monetario internazionale». 
Diretto, insolente. Eppure Depardieu si fa persino esistenzialista nella sua autobiografia. «Caccio tutte le cose che possono appartenere al passato, vivo nell’istante, nel presente (...). Se presti il fianco al passato, i vivi e i morti ti uccidono, non aspettano che questo». Infine il sogno e la paura di un addio trasgressivo, come lui: «È doloroso essere vecchio, da molto tempo ho compreso che non bisogna lasciare l’età imputridirti l’anima e il cuore, bisogna andarsene, partire verso il luogo dove puoi ancora sognare».