Io Donna, 4 ottobre 2014
«Il mio Novecento vent’anni dopo». Baricco torna in teatro
Vent’anni di Novecento, testo teatrale di Alessandro Baricco. L’8 e il 9 ottobre al Piccolo Teatro di Milano si festeggiano i vent’anni di questo spettacolo con una rappresentazione, regia di Gabriele Vacis, interprete Eugenio Allegri. Esattamente come vent’anni fa. Oggi però Alessandro Baricco ha cinquant’anni, due figli, nove romanzi alle spalle, uno in uscita a marzo («Non dico il titolo perché non ricordo come sono rimasto d’accordo con l’editore») una scuola di scrittura, la Holden che da 60 studenti è passata a 400.
Cos’è Novecento vent’anni dopo?
«Un testo senza età, un piccolo classico. Ai tempi è stato rivoluzionario, il primo monologo in Italia».
Com’è nato?
«Dall’ammirazione per Gabriela Vacis e Eugenio Allegri. Eravamo tutti trentenni, mi sono proposto di scrivere qualcosa per loro. Ci siamo visti a cena da Vacis, e io ho raccontato tre storie. Una era Novecento».
E le altre?
«Non ce le ricordiamo più. Dovevano essere dimenticabili».
È stato difficile realizzarlo?
«Era una forma inedita in Italia. Non sembrava possibile far venire un pubblico a sentire uno che parla. Abbiamo debuttato ad Asti. L’allestimento era molto povero. Prodotto dal Teatro Settimo di Torino di cui la cassiera era appena scappata col conto».
Che importanza ha per lei la narrazione?
«C’è in tutto quello che faccio: nei romanzi, nel giornalismo (Barnum), nella televisione, nella scuola Holden. La generazione degli anni Novanta ha spazzato via quella precedente. C’eravamo stufati del cerebralismo che, secondo noi, non aveva prodotto niente. Siamo tornati alla narrazione».
Secondo voi chi?
«Sandro Veronesi, il primo Andrea de Carlo, la prima Susanna Tamaro, Daniele Del Giudice».
Perché una generazione intera?
«Era la prima a essersi formata con la televisione e i fumetti».
Lei racconta favole ai suoi figli?
«Odio le favole. Racconto storie inventate. Ci mettiamo tutt’e tre insieme a raccontarle».
E a lei da bambino qualcuno ha raccontato favole?
«No. Eravamo sabaudi. Ma sono stato circondato da grandi raccontatori: mio padre, mia nonna, i preti».
Che uomo è lei dopo vent’anni?
«Che uomo sono riguarda solo me».
Schivo, almeno questo si può dire?
«Avrei potuto fare una vita più divertente, certo. Però in prima fila avrei realizzato meno cose. A 35 anni, quando facevo la televisione, uscivo da Saxa Rubra, evitavo qualche ammiratrice, e mi chiudevo al residence Clodio a scrivere. Scrivevo Seta».
Il suo rapporto con Roma?
«Non vedevo l’ora di tornare a Torino».
Che scrittore è invece dopo vent’anni?
«Cambia il rapporto con il mestiere. All’inizio scrivi per cagare in testa al mondo. Per strafottenza, rabbia, esibizionismo, imprudenza».
Rabbia verso chi?
«A trent’anni avevo una frase di Celine appesa al muro: “Io scrivo per rendere impossibile agli altri farlo”».
Poi?
«Poi scrivi per capire fin dove arriva il tuo talento».
E dopo?
«Adesso prevale il gesto in cui trovo bilanciamento. Diciamo: se a trent’anni avessi perso il romanzo che stavo scrivendo, mi sarei ucciso. A quaranta, avrei ucciso l’editore. A cinquanta, oggi, direi: ma guarda te. E ne scriverei un altro».
E a ottanta?
«Che ne so».
In Novecento c’è scritto «ti svegli e ti scopri vecchio», le è successo?
«No. Prima di tutto perché non sono vecchio. A un certo punto non sei più giovane, ma è una scoperta lenta. Almeno per me».
C’è una continuità tra Novecento e il suo film Lezione 21, perché?
«C’è?».
Gli eventi personali, storici, possono cambiare la scrittura?
«No. C’è già tutto fin dall’inizio. Il talento vive in una cabina sua, impermeabile agli eventi storici. “Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto” dice Novecento. Ogni singola parola di uno scrittore è lì, già nel primo libro».
Centrale in Novecento il momento del duello, cosa rappresenta per lei la competizione?
«La competizione è una macchina narrativa potentissima. Ogni storia racconta un duello».
E il duello di Baricco scrittore?
«Ho uno spirito sportivo. Mi piace vincere, mi piace perdere. Capisco le cose come partite».
«La gente è cattiva con quelli che perdono», c’è scritto nel libro.
«Anch’io lo sono».
Ma lei ha aperto una scuola.
«La scuola non si fa per bontà».
Per cosa allora?
«Sono stato cattolico, di sinistra. Vorrei lasciare un mondo migliore. È l’idea della restituzione. Sotto c’è un piacere narcisistico».
Da un anno la scuola si è ingrandita: da duecento metriquadri a quattromila, da sessanta studenti a quattrocento.
«A un certo punto bisogna diventare grandi. L’acquisizione della forza è un fatto positivo. Noi siamo passati dalla bottega artigianale alla grande bottega evitando l’industria».
È anche un rischio economico, lei ha investito soldi suoi, non ha paura?
«Farinetti, il mio socio, dice: “Senza panico non c’è impresa”».
Lei ha vinto sempre?
«Nella memoria restano le vittorie, non le sconfitte. In realtà io ho avuto una lunga parentesi di insuccessi, di cose che volevo fare e non sono riuscito a fare».
Tipo?
«Battaglie civili. Non ho mai fatto politica, ma mi sono speso per alcune idee. Ho detto la mia su come si spendono i soldi pubblici per la cultura».
E l’hanno ascoltata?
«Dire di no: dopo sette anni è tutto uguale. Insomma, io non ho cambiato il mondo. E certo, mi dispiace non consegnare ai miei figli un mondo migliore».
Che bambino è stato lei?
«Ci sono foto di me da piccolo, un anno, aggrappato alla mia bretella. Se lasciavo la bretella, cadevo. Camminavo così, non aggrappandomi a un altro, ma a me. Nelle foto mi tengo su da me».