Europa, 4 ottobre 2014
La corsa per la Casa Bianca di Hillary Clinton e il potere dei reduci di Berkeley
«Non ti fidare di nessuno sopra i trent’anni». Jack Weinberg, a cui è attribuita quella frase diventata uno degli slogan iconici degli anni Sessanta, ha 74 anni, e il primo ottobre scorso era l’oratore principale nel raduno alla Sproul Hall dell’università di Berkeley.
Cinquant’anni fa, proprio in quel piazzale di fronte al rettorato dell’ateneo californiano, Jack era stato fermato dalla polizia del campus per aver volantinato a favore del movimento per i diritti civili. Gli agenti lo presero e lo ficcarono nella loro auto, che però fu immediatamente bloccata da una folla pacifica ma determinata di studenti.
L’auto si trasformò in una sorta di palco. Sul suo tetto, dopo essersi tolti educatamente le scarpe per non graffiare la carrozzeria, si alternarono per 32 ore in una maratona oratoria decine di studenti arrabbiati col presidente dell’ateneo Clark Kerr che aveva mandato le guardie. Tra loro fece impressione Mario Savio, figlio di un immigrato siciliano, un padre tosto che aveva imposto al figlio di non parlare italiano ma solo inglese, per diventare un vero americano. Anche per questo non lo chiamava Mario ma Bob.
Mercoledì scorso, con Jack, c’era tra gli oratori anche la vedova di Mario, Lynne Hollander Savio. E c’erano tanti altri “reduci” di quelle giornate. Insieme a un folto gruppo di studenti della Berkeley odierna, un ateneo diverso da quello da allora, dove la maggioranza degli studenti è di origine asiatica e ispanica, specchio fedele della rivoluzione demografica della California.
Il Free Speech Movement (FSP), il movimento che iniziò in quei giorni e che avrebbe dato vita al movement degli anni Sessanta e Settanta, non solo è stato rievocato con toni orgogliosi dall’università che cercò di reprimerlo. Oggi è materia di studio a Berkeley. E la bella biografia di Mario Savio, scritta da Roger Cohen, è un libro di testo di base nell’ateneo californiano.
Gli anni Sessanta sono dunque entrati nell’accademia, con il rispetto che si deve alle fasi trasformative radicali della storia americana. Non solo a Berkeley. Qualche giorno fa, l’università del Michigan a Ann Arbor ha acquisito 150 scatoloni contenenti gli appunti, le lettere e le carte di Tom Hayden, leader dello Student for a Democratic Society (SDS), il movimento studentesco, figlio dell’FSM, divenuto più organizzato e più politicizzato, che si batté contro la guerra in Vietnam. Nel lascito ci sono anche i file della Fbi che allora spiava sistematicamente Hayden, sua moglie Jane Fonda e Joan Baez e gli altri leader dell’SDS. È come se l’università di Pisa chiedesse a Adriano Sofri di donare all’ateneo in cui studiò il suo archivio di leader del movimento.
Chiusi i conti con quell’epoca? Archiviata una fase storica tumultuosa ma oggi considerata feconda? I reduci che erano mercoledì scorso a Berkeley possono perfino fare tenerezza. Ma molti di quelli che vennero dopo, con qualche anno meno di loro, e che furono nel movement anti-Vietnam, non si fanno vedere alle operazioni-nostalgia, per il semplice fatto che continuano a ricoprire posti importanti nell’accademia, nei media, nella cultura.
Si pensava che la vittoria di Barack Obama, nel 2008, avesse segnato, non solo simbolicamente, la sconfitta politica di una generazione – impersonata da Hillary Clinton – e la sua uscita dalle stanze del potere. La post-ideologia, trascinata dai giovani della rete, aveva avuto la meglio sul liberalism vecchio stile, rappresentato dai Clinton e sostenuto dai loro coetanei un tempo della New Left, cresciuti a pane e politica nei campus politicizzati degli anni Sessanta e Settanta.
Anche Hillary di famiglia conservatrice, si interessò alla politica negli anni universitari dopo gli assassini di Malcolm X, Robert Kennedy e Martin Luther King, Jr. ed entrò nel Partito democratico per partecipare come volontaria alla campagna presidenziale di Eugene McCarthy, candidato di sinistra nettamente contrario alla guerra in Vietnam.
Oggi Hillary torna prepotentemente sulla scena, ed è considerata l’inevitabile candidata democratica alle presidenziali del 2016 e, allo stato, è la più che probabile prossima Madam President.
Correrà con una piattaforma centrista e decisamente lontana dal pacifismo di McCarthy? Certo, ma di nuovo con il sostegno determinante di teste pensanti che hanno un retroterra negli anni Sessanta. C’è una resilienza incredibile in quella generazione, che neppure la straordinaria ondata obamiana è riuscita a “rottamare”.